Se n’è andato anche un altro poeta che ha segnato un momento importante della poesia italiana del Secondo Dopoguerra, con Zanzotto, Erba, Pasolini e Raboni: Giovanni Giudici. I suoi versi chiudono con l’ermetismo per trovare una nuova dimensione prosastica che mette in luce ambiguità e suoni oscuri della contemporaneità, passata attraverso l’esperienza esistenziale del poeta in relazione al contesto di un’Italia intuita sempre in un’ottica personale. Un’autobiografia dissimulata in una sorta di figura sociale, che ci presenta la sua vicenda di vita come se si trattasse del simbolo dell’alienazione dell’uomo, nel momento in cui si constata che ciò in cui si è creduto mostra il suo disincanto, la sua debolezza e disillusione. Il realismo poetico di Giudici diventa così una sorta di teatro, in cui la realtà agisce secondo la finzione, mettendo in scena la maschera che può riportare a una tradizione di illusa totalità, in una dimensione che si presenta sempre più incerta e ambigua. Giovanni Giudici era nato nel 1924 a Le Grazie, frazione di Porto Venere (Sp), dove oggi alle 17 si svolgeranno i funerali. Nella prima infanzia perde la madre, un lutto che gli lascia una «voragine di privazione» poi dilatata a dismisura col passare degli anni e che troverà ampio spazio anche nella sua poesia. Ha vissuto a lungo a Roma, dove si è laureato. Inizia a pubblicare versi nel 1953, ma le sue raccolte maggiori sono
L’educazione cattolica del 1963,
La vita in versi (Mondadori) del 1965,
Autobiologia del 1969, per giungere fino a
Il ristorante dei morti del 1981 e ancora a
Empie stelle (1996) e
Eresia della vita (1999). Tutta la poesia di Giudici è stata raccolta nel 2000 a cura di Rodolfo Zucco in un volume dei Meridiani intitolato
I versi della vita. Molti sono gli incontri importanti che hanno influenzato il suo lavoro come poeta, ma anche come pensatore e giornalista. Innanzitutto quello con Umberto Saba a partire dal 1953: «Erano dei soliloqui. Parlava solo lui»; poi con Giacomo Noventa, che gli insegnò «che un poeta non deve aspirare ad essere abbastanza bravo. Un poeta deve aspirare alla grandezza». Fino a quando inizia la sua avventura a Ivrea, «in una Olivetti che era ancora avviata al suo destino di azienda speciale». Poi ci sono gli incontri con Geno Pampaloni e con Franco Fortini, che frequenta sempre alla fine degli anni Cinquanta a Milano, «la città di un’altra dimensione, di un’alta cultura. Avevo già contatti con Sereni e soprattutto conobbi poi Fortini. Un incontro importante: se ho studiato un po’ lo devo a lui. Con questa idea del catechismo che ho in testa, se uno mi dice di fare una cosa io la faccio. Così se Fortini mi diceva di leggere i
Manoscritti del ’44 di Marx io li leggevo. E mi piacevano pure». È con Fortini che affina una visione morale della vita, vista anche nell’ottica di un’ironia amara, una visione che ha bisogno di «una concezione unitaria del mondo non come disegno dogmatico ma come aspirazione a una totalità: questo ancora ci lascia la speranza. Una visione morale d’insieme dice che se tu fai questo ne consegue quest’altro. Obbliga alla coerenza e implica un progetto di trasformazione. E invece hanno voluta condannarla e abolirla come fosse metafisica. Vorrebbero distruggere la dimensione stessa della progettualità, per garantirsi uno
status quo perenne». Una "utopia" che si scontra con il muro di indifferenza degli ultimi anni e con una contemporaneità che non riesce a dare una visione di "speranza". Basti pensare quanto Giudici stimasse don Milani, al quale aveva dedicato una poesia e del quale, già nel 1959, aveva recensito un libro in un articolo (poi ripreso da un numero speciale dello
Straniero di Goffredo Fofi) in cui Giudici si interroga su che cosa è un linguaggio democratico. Dopo aver lavorato fino al 1980 per la pubblicità alla Olivetti, svolgendo parallelamente attività di saggista e giornalista oltre che di traduttore (soprattutto con versioni da autori di lingua inglese: Donne, Milton, Dryden, Coleridge, Hopkins, Stevens, Pound, Eliot, Graves, Shapiro, Wilbur, Sylvia Plath), si era ritirato in Liguria. Aveva tradotto anche il
Pange lingua di Tommaso d’Aquino, oltre alla versione dell’
Eugenio Onieghin di Puškin in versi italiani, pubblicata da Garzanti con una prefazione di Gianfranco Folena che scriveva: «Puskin soleva paragonare le traduzioni al cambio dei cavalli nelle stazioni di posta. Si può dire che questo cambio è stato fortunato, e che gli scalpitanti puledri di Giudici hanno fiato e ardore per accompagnarci nel nostro cammino».