A leggere le note che accompagnano questo crudo romanzo tedesco degli anni Trenta del secolo scorso (
Fratelli di sangue, Fazi, pp. 206, euro 17) pare che il problema sia la mancanza di immagini dell’autore nei risguardi di copertina. In effetti di Ernst Haffner non si sa nulla. Ricompare, dopo che il suo libro è stato bruciato nei roghi nazisti e l’archivio del primo editore distrutto, per i tipi di una piccola casa editrice tedesca, la Metrolit di Berlino nel 2013 (ora ben tradotto da Madeira Giacci per Fazi Editore), come autore senza volto di un solo libro. Romanzo di strada e di amicizia, quella dura e inscalfibile della marginalità giovanile che si autoalimenta e orgogliosa corre per vicoli e stradine di una Berlino esplorata negli anfratti più reconditi e puzzolenti. La fame, l’abbandono, la derelizione di un gruppo di ragazzini, gli stessi che verranno inquadrati come
Pimpfe (pivelli) e
Jungmädel (fanciulle) nella Gioventù hitleriana solo qualche mese dopo, e che sopravvivono tra correzionali ed espedienti criminogeni, fino alla dissoluzione. Già vecchi quando raggiungeranno la maggior età che dagli istituti di rieducazione li porterà direttamente al carcere, passando per prostituzione, alcol, risse ed espedienti della sopravvivenza urbana. La critica americana e tedesca ha esaltato la crudezza del linguaggio, quel suo andare dritto allo stomaco del lettore che trova in questi personaggi, intagliati nel legno duro delle situazioni di vita, di che pensare. E in effetti la straordinarietà del romanzo sta proprio nella sua assoluta mancanza di commento. Il narratore non esprime alcun giudizio sui comportamenti dei ragazzi. Sono mossi dalla fame, dal freddo, dall’orrore di una società che si disgrega, che non offre loro neppure le quinte della rappresentazione, falsa, ma pur sempre una consolazione, di possibile salvezza. Sembra quasi trattarsi della trasposizione letteraria dell’avalutatività dello scienziato sociale di weberiana memoria. Il racconto è sospeso in un’atmosfera frenetica nella quale la banda, i “Fratelli di sangue” («Jugend auf der Landstrasse Berlin » il titolo originale della prima stampa a opera dell’editore Bruno Cassirer, gioventù di Berlino sulla strada), non può far altro che adeguarsi, in un susseguirsi di fughe, rincorse, incontri e separazioni, che mimano, al contrario, la stessa frenesia della società ufficiale, quella di sopra, quella che si appresta a delegare al Terzo Reich il compito, illusorio, di liberarsi dalla miseria e dall’abominio. Nelle pagine di Haffner non ci sono analisi, spiegazioni; non vengono tratteggiati gli esiti di scelte economiche, di politiche sociali, di questo o quel partito, di questa o quella corrente culturale; non ci sono i destini traditi della nazione a giustificare o a spiegare il degrado. Mancano del tutto i giudizi sul momento storico della Germania. È assente la
Kultur, e la
Zivilisation è ridotta a quella dei topi, ben semplificata dal grande addomesticatore di ratti che fa scivolare con un fischio minuscoli topini bianchi da una manica per farli rientrare, dopo i saluti del caso, nei risvolti dei pantaloni, al modico prezzo di un piatto si salsiccia e una pinta di birra. Una delle scene più raccapriccianti del libro, per quanto vivida scorre in essa il senso della perfetta simbiosi tra uomo e animalità realizzatasi nella Berlino dei quegli anni. Così come l’ossessione del mangiare. Non c’è pagina, delle duecento del libro, che si leggono d’un soffio, nella quale non compaiano salsiccie, glasse, patate, birre e intingoli sui tavoli malfermi delle bettole più luride e scassate. Unite alla musica assordante delle bande di ottoni e tamburi, sembrano annunciare il repulisti prossimo della Hitlerjugend. Non passerà che qualche anno, forse solo qualche mese, e quei tamburi verranno messi insieme, accordati al ritmo della parata ripresa da Leni Riefenstahl nell’agosto del 1936 allo Stadio olimpico di Berlino. Ma c’è della letteratura in queste pagine? Certo, se le paragoniamo a quelle di romanzi come
Berliner Alexanderplatzdi Alfred Döblin o
Una giovinezza in Germania di Ernst Toller, o addirittura alle ambientazioni cabarettistiche del Brecht dell’Opera
da tre soldi, solo per fare qualche esempio, la risposta sarebbe negativa. Ma quanto alla realtà, meglio, alla verità della realtà rappresentata, siamo in presenza di un documento tagliente e sottile come una lama, che colpisce il cuore del lettore proprio perché, a differenza di altri, evita qualsiasi enfasi retorica o stilizzazione ideologica. Non solo, ma la rottura con la grande matrice del romanzo tedesco, il
Bildungroman, il romanzo di formazione, quello da cui lettori e personaggi, per non parlare dell’io narrante, si trovano alla fine migliori e riappacificati, quasi appagati dalle peripezie attraversate, non potrebbe essere più assoluta. E da questo punto di vista nelle vicende dei ragazzi di Berlino non si conserva alcuna speranza, non vi è riposo possibile per la macchina della sopravvivenza che i loro corpi maci-lenti, ma pur sempre forti, sono costretti ad alimentare. Ipnotizzati dall’attesa dell’uragano la società dei fratelli di sangue aspetta solo che il fuoco si riversi sulla sua pelle e nel frattempo appoggia i gomiti sul tavolo unto di una bettola mentre ascolta la voce di una cantante che non è ancora diventata per tutti Marlen Dietrich.