Ponzio Pilato, navigato funzionario delle colonie dell’impero di Roma, era vissuto troppo tempo in Oriente per non essere diventato un po’ filosofo. I filosofi sono quelli che sanno le risposte alle domande che pongono, per questo Pilato non aspettò la risposta quando al profeta ebreo, che gli era stato consegnato dalla sua nazione e dai sommi sacerdoti, chiese: «Che cos’è la verità?». San Giovanni, buon testimone della scena, prosegue: «Detto questo, uscì» (Gv 18,38). Pilato, infatti, aveva formulato la domanda secondo la modalità insegnata dai filosofi, cioè ponendo il
che cosa, il requisito d’identità che richiede una definizione. Ed era convinto, ponendola in questi termini, di non dovere aspettare una risposta.Pilato era cieco; la verità gli era saltata agli occhi. Egli si chiedeva che cosa potesse essere, e l’aveva davanti a lui. Certo, egli vedeva solo un pezzente buono per la crocifissione. Siccome aveva occhi e non vedeva, era cieco. Se ci avesse visto veramente, avrebbe riconosciuto il Re della gloria, avrebbe visto Mosè ed Elia conversare con Lui e il compiacimento dell’Altissimo adombrarne il capo. Ma non ha visto nulla e ha posto la sua domanda idiota. Molti altri dopo di lui hanno fatto altrettanto al punto da trasformare in stupidario la storia del pensiero e da presentare Bouvard e Pécuchet che non fanno altro che riproporre instancabilmente la domanda di Pilato.Dopo i romanzi alessandrini questa (ri)cerca della verità ha preso una piega iniziatica, a episodi, e ai giorni nostri, dopo Edgar Allan Poe, il testimone è passato a un genere letterario: il romanzo poliziesco. Non mi riferisco qui ai falsi sottoprodotti che riempiono le edicole delle stazioni, ma a quei testi che meritano la qualifica di romanzi. Tutti sanno come, all’inizio del secolo, Maurice Leblanc (1864-1941) in Francia e sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) in Inghilterra abbiano onorato con talento questo genere. Tuttavia il vero avversario di Arsenio Lupin non è Sherlock Holmes; esso va piuttosto individuato nel contributo al genere "detective" offerto, negli stessi anni, da G.K. Chesterton (1874-1936) con le storie di Padre Brown. Che è volutamente l’anti-Sherlock Holmes. Egli svolge un sacerdozio senza clamori in oscure parrocchie della periferia operaia di Londra. È stato messo in evidenza il suo comportamento distratto, allocchito, smarrito; questo prete inzaccherato non ha nulla dell’eleganza talora inquietante di Sherlock Holmes: piccolo, infagottato nella sua talare logora, col suo vecchio cappello tarmato, il suo grande ombrello e gli scarponcini consumati. Le sue inchieste marciano sui dati classici, ma non si trovano né l’orgoglio di Hercule Poirot e neppure i sottili doni d’osservazione (psicologici) di Miss Marple, i due eroi siamesi di Agatha Christie.Padre Brown è un prete cattolico; sa chi è la verità ed è consapevole che Lui solo ne è il padrone. In lui il prete si oppone al detective: «Se il secondo odia il crimine, il primo è ben lungi dall’odiare i criminali; nei loro confronti egli non è animato da senso di giustizia, ma da un desiderio di carità» (F. Lacassin). Il crimine viene punito, ma il colpevole è perdonato, o meglio è salvato, riscattato, purificato dalle prove. Il metodo di Padre Brown non è l’inchiesta scientifica, attenta agli indizi materiali di Sherlock Holmes. Per l’eroe di Conan Doyle, infatti, il sommarsi di minuscoli dettagli materiali porta all’
evidenza, che emerge all’improvviso come la figura che appare in un puzzle (e che sfugge allo sfortunato Watson); quella di Sherlock Holmes è una verità cosificata, afferrabile attraverso la materialità delle prove accumulate. Non dimentichiamo che Conan Doyle era un medico e che il modello (o i modelli) del suo detective è il medico; in una delle prime interviste concesse alla stampa da Conan Doyle, nel 1892, egli confessa: «Sherlock è totalmente disumano, senza cuore, ma ha una magnifica intelligenza logica» (in
The Bookman, maggio 1892). Maurice Leblanc, che prende in giro l’eroe britannico con la caricatura di "Helock Sholmès", riconosce in lui tuttavia il prodotto dei due più straordinari poliziotti del mondo, il Dupin di Poe e il Lecoq di Gaboriau, «ancora più straordinario e più irreale» (
Arsène Lupin contre Herlock Sholmès, 1908).Con Chesterton è tutta un’altra cosa. Questo aspetto è sottolineato in un breve racconto in cui Chesterton denuncia il segreto di Sherlock Holmes, alias dottor Hyde. Il detective ha commesso un omicidio e risponde al fratello della vittima, giunto nel suo ufficio per ricattarlo, accusandolo di aver disertato e di essere stato in prigione in seguito a una rapina. Diserzione e galera sono denunciati da indizi materiali, ma i giovani aiutanti del detective si accorgono che il loro capo è andato troppo in là: come ha potuto dedurre dalla semplice osservazione il crimine che era costato la prigione a quell’individuo? Come il più intelligente dei due spiega all’amico: «Al diavolo la scienza dell’osservazione! Credi ancora che i detective riconoscano i criminali annusando la loro lozione o contando i loro bottoni? Essi cercano di individuare i criminali perché loro stessi sono mezzi criminali, appartengono a questo stesso mondo marcio e lo tradiscono, lasciando andare un ladro per acchiapparne un altro, mostrando che non esiste onore tra i ladri». Questa conoscenza dell’intimo che disonora chi fa commercio di scienza è invece proprio quello che fa Padre Brown e che egli spiega come il proprio segreto. Padre Brown non ha lente d’ingrandimento e non studia la cenere delle sigarette o le tracce dei copertoni delle biciclette, conosce però il cuore degli uomini. Poiché ha passato lunghe ore nel confessionale della sua misera parrocchia, egli sa di che cosa è fatto il cuore dei criminali (il cuore degli uomini): «Quello che lei chiama "il segreto" è l’esatto contrario del metodo scientifico. Io non cerco di uscire dall’uomo, io cerco di entrare nell’assassino [...]. Sono sempre un uomo, che muove braccia e gambe, ma aspetto finché riconosco di essere dentro un assassino, pensando i suoi pensieri e lottando contro le sue passioni, finché non mi sono piegato nell’atteggiamento del suo odio represso che spia e colpisce, finché non vedo il mondo con i suoi occhi iniettati di sangue, tra i paraocchi della sua paranoia, finché non sono davvero diventato assassino [...]. Non c’è nessuno talmente buono che non sappia quanto è cattivo o possa diventarlo [...] finché la sua sola speranza sia l’aver arrestato un criminale e averlo tenuto sano e salvo sotto il proprio cappello» (
Il segreto di Padre Brown).Come egli riconosce nello stesso testo, il mestiere di Padre Brown è di «scoprire i moti di generosità negli assassini». Si potrebbero moltiplicare le citazioni che convergono verso questa constatazione: la verità che Padre Brown cerca è quella dei cuori. Egli non cerca tanto di sapere chi è l’assassino ma piuttosto come egli si è mosso.
Il segreto di Padre Brown è sì il manifesto metafisico di un Chesterton convertito al cattolicesimo, ma il personaggio da lui creato più di quindici anni prima testimoniava in modo ammirevole che la verità è cattolica. Nel 1926, al momento della drammatica sparizione di Agatha Christie, Conan Doyle si prende gioco dei detective, ma non secondo i vecchi metodi scientisti di Sherlock Holmes. Doyle si era, nel frattempo, convertito allo spiritismo; partecipava così a un movimento generale al quale faceva capo anche lo storico gesuita Herbert Thurnston, in cui talvolta si scorge un modello per Watson. Nel "caso Christie" Doyle fece ricorso ai buoni uffici di un medium. Questo ci serve per passare alle opere di questa autrice: Poirot fa delle deduzioni psicologiche sapienti grazie all’azione meravigliosa delle sue «piccole cellule grigie», mentre Miss Marple, l’anziana signora di Saint Mary’s Mead, ha doti di psicologa, cioè di psicanalista. Le «scienze umane», che Agatha Christie non apprezzava molto, sono attivate nei suoi romanzi polizieschi, come del resto erano state utilizzate da lei per scrivere, con il nome di Mary Westmacott, eccellenti romanzi «psicologici».Padre Brown, però, non è un brillante detective belga: egli si accontenta di far funzionare le virtù di uomo, non di detective. Questo gli consente di riconoscere la verità dove essa si trova: nella speranza e nella fiducia degli uomini, nelle loro passioni e nel loro eroismo. Per Padre Brown, la verità è un essere vivente: è Colui che è la verità dell’uomo per esserne stato l’archetipo e il modello. Essa è più reale e oggettiva di quella che Sherlock Holmes cerca di raggiungere, lo è ancora di più, perché non è una cosa che si può afferrare. La verità del crimine non è sono l’arma, l’impulso, le circostanze, è il criminale e, ancora di più, il dramma della libertà e della grazia che fondano l’uomo in grandezza d’umanità.