Saint Paul de Vence è uno di quei luoghi benedetti dalla sorte che, a pensarci, facilmente ci fanno venire il magone per quanto la talvolta arrogante Francia abbia espresso una cultura moderna che a noi, convinti d’essere i migliori, troppo spesso viene a mancare. Saint Paul de Vence è un paesino medievale come ve ne sono tanti sulla costa tirrenica, nati negli anni delle scorrerie saracene per proteggere i suoi abitanti. Tipologia stabile e riscontrabile tante altre volte: in collina a 6 chilometri dal mare sul quale si trovano luoghi turistici più frequentati, una città come Nizza a levante e una cittadina, Antibes, a ponente. Esattamente come Pietrasanta o come Capalbio, come i nidi d’aquila della costiera amalfitana. Luoghi ideali per il fresco serale rispetto alla calura delle spiagge. Solo che ad Antibes già all’inizio del XX secolo veniva a dipingere Monet quando Renoir aveva il suo studio a Cagnes sur mer, ad un tiro di schioppo. Paul Signac stava lì vicino a Saint Tropez. Arrivarono Matisse e Dufy e poi Picasso e Braque. Anzi Picasso divenne una istituzione perché lì accanto si mise a modellare terrecotte, nell’altro villaggio di collina, a Vallauris. In Costa Azzurra giunge anche il giovane Aimé Maeght (1906-1981). Nativo del profondo nord francese viene a scoprire sul mediterraneo il segreto già rivelato da Matisse nel suo quadro puntinista «luxe, calme et volupté». Diventa mercante d’arte e subito dopo la guerra apre una galleria anche a Parigi: sarà il fulcro del mercato più sofisticato di quegli anni. Ma il cuore rimane a Saint Paul de Vence, dove con la moglie Marguerite nel 1964 danno vita alla loro fondazione, quella che oggi è un vero tempio dell’arte coi suoi giardini ravvivati dalle sculture di Calder, di Léger e di Mirò, e con 200.000 visitatori all’anno. Amico e promotore di tutti gli artisti che frequentano la costa, lo è anche del più atipico di tutti, Alberto Giacometti, che vede principalmente a Parigi. Se c’è nel panorama del XX secolo una personalità artistica che ha tutto dell’opposto della star, nulla del protagonismo di Picasso, niente della dissipata disperazione di Bacon, è proprio lui, l’Alberto Giacometti nato a Borgonovo di Stampa nel 1901 e morto a Coira a sessantacinque anni. La cosa più clamorosa che gli sia successa è finire con la sua effigie sulla banconota da 100 franchi della Confederazione Elvetica. Se vi può essere un artista a lui parallelo in Italia sarebbe sicuramente Giorgio Morandi. Infatti erano tutti e due amici di Lamberto Vitali, il geniale commerciante di caffè che passò la sua vita a scrivere d’arte e a collezionare per lasciare poi le sue raccolte ai musei milanesi. Morandi campava nell’austera comodità di via Fondazza a Bologna, con la mamma e tre sorelle. Giacometti lavorava in una ben più austera grangia settecentesca fatta di tronchi d’albero sulla strada della val Bregaglia, a Bondo, dove venne a vivere anche Varlin. La Val Bregaglia e l’adiacente zona grigionese costituivano, prima del turismo, una minuscola e scomoda porzione alpina, nella quale però, come per miracolo, fiorirono tre generazioni di Giacometti, passavano Nietzsche e Hesse, dipingevano Cuno Amiet e Segantini. L’aria gelida del Maloja temprava le loro menti come la dolcezza di Nizza seduceva quella degli altri amici di Maeght. Ma Giacometti non stava solo fermo in lunghe meditazioni, si muoveva, a Zurigo come a Parigi, a suo perfetto agio fra surrealisti e pensatori. Fu protagonista della prima scultura surrealista assieme a Max Ernst. Inventò poi quella sua forma a cadute di materia, ad allungamenti onirici, ch’era sorella diretta dei suoi disegni nervosi. E, dopo un lungo periodo nel quale era artista per avveduti raccoglitori intellettuali e iniziatici, divenne mito popolare delle arti, poi mito del mercato con una sua grande scultura dell’«Uomo che cammina» venduta all’asta quest’anno a 74,2 milioni di euro. Aimé Maeght non c’è più, Alberto Giacometti neppure. La Fondation Maeght dedica a Giacometti una formidabile mostra che durerà fino al 15 ottobre.