Con Paris sans fin Alberto Giacometti ci ha dato il suo Libro dei morti. Tutte le sue figure scolpite, dipinte o graffiate sulla carta, dopo un po’ che le si osservano rivelano una ieraticità egizia. Poi, com’è quasi ovvio che sia, la figura umana che s’allunga, s’assottiglia, si riduce a filo di tungsteno incandescente evoca anche altri dèi. Quelli etruschi, ombre della sera; quelli dei primordi, delle caverne rupestri, divinità umanissime, in simbiosi col mondo naturale, gli occhi sgranati sempre aperti per non soccombere agli imprevisti che la natura presenta a chi vive allo stato selvatico. Giacometti non era affatto un selvaggio, anzi aveva una cultura raffinatissima e un senso dello sguardo in cui si decantavano secoli e millenni di forme create e di forme vissute; ma era certamente un selvatico.
Era svizzero, di Stampa, cantone dei Grigioni; il padre Giovanni artista, il fratello Bruno lo sarà per farsi compagno fedele di Alberto. Che fosse selvatico, è testimoniato da come accumulava giorno dopo giorno nel suo atelier scorie di lavoro e sporcizia, di cui era rispettosissimo. Mary Douglas, grande antropologa, disse una volta che lo sporco è materia caduta nel posto sbagliato. Per questo, l’accumulo di Giacometti non potrà mai essere sporcizia; perché non c’era posto più giusto per quelle scorie del suo atelier, esse sono stratificazioni di vissuto, del suo tormento creativo. Jean Genet, che fu il primo a parlare della scultura di Giacometti come di un’arte per ciechi, nel testo che apre l’edizione italiana del libro Parigi senza fine – opera nata su commissione di Tériade e faticosamente portata a termine da Giacometti tra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta (ora edita da Morcelliana, pp. 226, euro 20) –, annota un pensiero misterioso: l’arte «non è destinata alle generazioni bambine.
Essa è offerta all’innumerevole popolo dei morti». Intende dire che quando una scultura di Giacometti entra in una stanza questa diventa tempio. È la sindrome egizia di Giacometti. Osiris e Iside scolpiti in enormi blocchi di granito ci fanno comprendere che gli egizi erano un popolo per il quale la tensione tragica verso il divino nell’arte si distilla in serenità, essenzialità, architettura di forme che guardano al regno dei morti. Arturo Martini aveva compreso il segreto: «La Grecia non è un assoluto, perché manca di costruzione... Gli egizi fanno l’opposto. Della bellezza non si sono mai occupati; la bellezza per loro è una risultante architettata... Riduci la Venere di Milo a venti centimetri, fa ridere. Lo Scriba egizio nelle stesse proporzioni resta di venti metri». Qui si comprende meglio che cosa sia, alla radice, il monumento. Non è il far grande, non è quantità né massa muscolare, ma il far sacro. E il sacro non ha la stessa metrica dell’uomo contabile. Accade con Giacometti. Le sue sculture più piccole hanno l’identica forza plastica e la stessa ieratica potenza di quelle alte due o tre metri. È lo shock di fronte a certe figurine che stanno in una scatola di fiammiferi, ma esposte su basamenti adatti a portare statue enormi.
Ed è in questa slogatura del rapporto fra l’opera e il basamento il senso ultimo della sua scultura. La figura diventa punto di coagulo di tutte le forze dell’universo, che lì convergono rivelando lo sforzo titanico dell’uomo per resistere a questa compressione cosmica. Il tragico in Giacometti: tutto si schiaccia, ovvero si tende fin quasi a scomparire nello spazio e ciò che rimane, il punto di magnete, sono volti stralunati, ebeti di visione, e la lebbra che consuma i corpi, di cui si conosce il demiurgo perché ha lasciato sulla materia l’impronta delle sue mani. Nel libro voluto da Tériade, Giacometti deve misurarsi con la città che ama e forse odia, al tempo stesso; che è pura come Annette, la moglie, con la quale non riesce a congiungersi provando il piacere che vorrebbe, e dunque lo cerca nei postriboli. Nondimeno, anche qui c’è Parigi.
L’immenso corpo che gli ricorda quello della donna nella quale Alberto vorrebbe riposare. Eros e Thanatos. La sua scultura è, come quel corpo, sacra e intangibile, ogni sguardo gettato anche solo per goderne la bellezza diventa impuro, e dunque ustiona gli occhi, ma la sua luce è un incantesimo che resuscita i corpi, e li porta, vivi, oltre la soglia. Come riferisce Sylvie Wuhrmann nella postfazione, il titolo del libro fu colto al volo da Tériade mentre usciva da un caffè con Giacometti, il quale, osservando gli interminabili viali alberati della città, esclamò: Paris sans fin! Giacometti visse questa prova con la sua solita sofferenza creativa, ma aggravata dalla malattia che lo condurrà alla morte nel 1966.
Lavora, anche dopo un intervento chirurgico nel 1963, subìto per ridurre i danni del tumore allo stomaco, per mettere insieme le 150 lastre nate dai ricordi e le emozioni legate a certi luoghi di Parigi. Difficile allontanare il pensiero che sia il suo malinconico lai di congedo: «Sento tutto lo spazio fuori intorno a me, le strade, il cielo, mi vedo mentre cammino in altri quartieri un po’ dappertutto, la mia cartella sottobraccio, mentre mi fermo, mentre disegno». E subito dopo l’arrivo in taxi nella clinica Remy de Gourmont – intitolata al grande scrittore del Latino mistico che morì nel 1915 sfigurato da un lupus vulgaris, forse conseguenza di una tubercolosi curata male –, ecco che «il grande tubo in metallo brillante della gastroscopia, spingeva contro la gola, lo sentivo come in un vuoto nel mio stomaco, sentivo il vuoto del mio stomaco, muggivo come un vitello, la testa all’indietro, i denti stretti... ». Il vuoto dello stomaco si specchia nella vastità degli spazi parigini, gli ingorghi del sacco digestivo nel groviglio dei segni e il costiparsi della costruzione visiva.
E poi il ritorno alla figura umana, ai nudi, ai ritratti di Annette, alle stanze del Museo di storia naturale con gli scheletri di mammut, agli interni dell’atelier con le opere disposte in rapporti sapienti, e i cavalletti con sopra le figure a diversi stati di avanzamento, la stufa, una sedia vuota, la Grande femme del 1960, coi piedoni che legano la figura alla terra come radici secolari . Paris san fin non è un libro sentimentale, è disperato, inciso con le unghie, i segni ustionano la carta come un laser che esca dagli occhi stessi dell’artista. È un libro poetico, come le pagine di Henri Focillon sulla collina del Pantheon che in Georges Gobô trovarono l’artista capace di dare alle parole la forza della visione. Quelli scritti da Giacometti sono frammenti interiori, lasciti che dicono un modo di vedersi nella realtà; la parola e la visione escono dalla stessa fonte. E come scrive Sylvie Wuhrmann Paris sans fin è uno dei tre grandi libri d’artista di cui dobbiamo essere per sempre grati a Tériade. Gli altri due sono Jazz di Matisse e Cirque di Léger.