A Roma una grande antologica sul maestro di Senigallia I racconti di un mondo che il “poeta” amava investigare fra le sue luci e i suoi squallori «La figura nera aspetta il bianco». È il titolo della foto che emblematizza la memorabile antologica di Mario Giacomelli (più di 200 scatti, stampe vintage autografate dall’autore) in atto al Palazzo Braschi di Roma (fino al 29 maggio), a cura di Alessandra Mauro e dell’Archivio Giacomelli di Senigallia. Ma quello scatto è un vero
busillis, perché, al contrario, pare sia la figura nera ad essere inseguita da uno spettrale candido manto. Uno dei tanti enigmi seminati dal più grande dei fotografi italiani d’arte del XX secolo (Senigallia 1925 – 2000), nel suo incessante, sofferto investigare il mondo con le sue luci e i suoi squallori, tuttora palpitante nella drammaturgia bidimensionale – unica al mondo nel suo genere – di questi suoi celebri racconti costruiti sulle vertiginose altezze tonali dei bianchi e il profondo lutto germinativo di misteri dei suoi neri. Fa specie, comunque, ritrovare nel cuore della Roma Rinascimentale e Barocca quell’inconfondibile turbinio dicromico di segni e forme gremiti, per riflessi e assorbenze, delle acute profondità della vita, dal dolore innocente alle epifanie dell’amore e che, negli anni ’50, tra dilaganti reportage calibrati sul rigoroso allineamento bressoniano mente-occhi- cuore, era autentica rivoluzione. A partire dai primi scatti dei ’50 alle celeberrime serie di racconti:
Lourdes, Scanno, Io non ho mani che m’accarezzino il viso (le celebri danze dei Pretini ispirate ai versi di Davide Maria Turoldo),
A Silvia, La buona terra, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Il canto della neve, La notte lava la mente, Così come la morte e
Ritorno, c’è tutta la forte aderenza alla realtà e alla natura e l’osssessione di scavare nelle latebre dell’io catturandone inquietudini e paure, con «forte potere di trasfigurazione lirico- visionaria». Ma il fotografo-poeta (lo era anche), in realtà, poneva se stesso, per esiti simulacrali o diretti, all’interno del processo creativo come «tempo» («il tempo, spazialmente, siamo noi in attesa dell’evento», diceva Lucio Fontana). Era un uscire da se stesso, dalla propria visione retinica delle cose, per trasformare il mondo devastato dalle mercature e dagli orrori. Un annullare, quindi, ogni distanza voyeuristica del mondo, ricusando le “magie” dei
moment decisiv bressoniani, imprimendo alla materia forma e vita ulteriori, drammatizzandola, immedesimandovisi fino ad agirvi tra maschere e simulacri della sua corte dei miracoli di maschere, cani di peluche e finti volatili. «È un entrare in uno spazio bianco astratto di un mondo nuovo, popolato d’innocenza e un uscirne come purificato; così nascono, e fotografo, le “mie” immagini del mondo», ci aveva rivelato, inquieto e commosso, in ospedale, poco tempo prima del suo trapasso. Era il sognato
leucos (la prefigurazione spaziale dell’Indefinito), una tela bianca in cui poter sognare di scrivere, non più per ombre e immagini, i racconti che trascendano i colori del tempo? Ecco perché ci piace indulgere all’ipotesi che la «figura nera» (in realtà, lui stesso) sia inseguita dal «bianco», che par rifuggire come ingannevole fantasma immaginale di un mondo impuro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Uno scatto del fotografo Mario Giacomelli