«Il rap è il linguaggio contemporaneo ed è giusto che sia rappresentato al Festival». Ghemon, alias Gianluca Picariello da Avellino, a 37 anni è considerato il “poeta” del rap italiano, un cantautore sui generis . All’Ariston ha sorpreso per eleganza la sua Rose viola dalle sfumature jazz. Il brano anticipa un prossimo album per Carosello Records e A1 Entertainment. Domani sarà accompagnato in duetto da Diodato e Calibro 35. Nella sua autobiografia Io sono - Diario anticonformista di uno che ha cambiato pelle edita da HarperCollins, dimostra di essere un artista pensante e profondo.
Ghemon, come si spiega che quest’anno a Sanremo molti Big abbiano voluto un rapper vicino?
Da rapper e da appassionato e studioso della materia sin da quando ero ragazzino, posso dire che il rap è come WhatsApp, come i social: è il linguaggio della contemporaneità. Tu puoi parlare cantando nel momento in cui avviene la realtà. Più immediato di così. I giovani si sentono rappresentati da un linguaggio così veloce. Però è un linguaggio ormai nella cultura anche pop ed è giusto che sia rappresentato.
Il rap italiano quanto è diverso dalla produzione straniera?
Noi abbiamo quello che, in partenza, è uno svantaggio per il rap, cioè la mancanza quasi completa di tronche in italiano. Sono pochissime, a parte “perché” e i verbi futuri accentati. Nell’inglese, nel francese e nei dialetti aiuta tantissimo nella ritmica. Ma noi italiani guadagniamo tantissimo in poetica perché abbiamo una lingua che è una poesia. Questo è il vero vantaggio in cui il rap tricolore si può differenziare.
Anche nei temi sociali trattati?
Noi viviamo una realtà diversa da quella americana, per esempio, ed è bello perché il rap è uno specchio in scala del mondo. Ci sono delle tematiche molto diverse, è bello che in questo Festival la gente scopra che esistono Ghemon, Rancore, Achille Lauro. Fanno parte della stessa famiglia, ma con caratteri diversi.
I rapper in una manifestazione istituzionale come Sanremo: vi state adeguando o state mediando?
Ma no, ci stiamo coccolando a vicenda. In realtà il rap ti spinge a puntare tutto su te stesso, non devi per forza aver studiato canto o uno strumento. Ottimizzi quello che sei e fai anche tanto da solo, si ricorre all’autoproduzione, ci si autopromuove su internet e sui social. Fare questo genere di percorsi permette di arrivare magari da esordiente al Festival, ma strutturato. Puoi comunque portare la tua musica e i tuoi fan se vedono che non ti snaturi, apprezzano doppiamente.
Secondo voi il rap ha fatto calare gli ascolti del Festival? Forse queste innovazioni non sono state capite da tutti.
La prima sera ho cantato dopo mezzanotte, se avessi cantato prima, gli ascolti sarebbero stati più alti. È una battuta, ovviamente. Questo è un momento di cambiamento. Da ascoltatore, l’ultimo momento che mi ricordo di così grande ricambio generazionale è stato con l’arrivo anni fa a Sanremo di Silvestri, Fabi, Gazzé, Giorgia, gli Afterhours. Loro sono diventati Big. Giustamente il ricambio doveva avvenire adesso. Baglioni ha fatto bene.
Non sempre il rap presenta contenuti condivisibili, specie sulle donne. Lei invece porta un brano delicato sulle sofferenze femminili.
Il mio brano Rose viola racconta dal punto di vista di una donna una storia d’amore dove ci si prende e ci si lascia. Mi piace l’idea di non raccontare solo l’amore che c’è nei sogni, o la tristezza che resta negli addii, ma anche quella zona grigia che spesso esiste e rappresenta una realtà che riguarda tutti. Come rapper, cantante e autore ho pensato che calarmi nel punto di vista di una donna fosse una bella sfida. Perché il nostro mondo musicale, soprattutto la musica rap, ha dato l’idea di non rispettare la donna, ma devo dire è molto variegato, siamo tutti differenti. Pensavo che parlare come fossi una donna fosse un bel segnale, al di là del fatto che sono innamorato delle donne anche perché non le capisco. È giusto andare verso gli altri con comprensione.