Telefonino all’età della scuola media. Computer con connessione
flat e
messager inclusi durante il percorso delle superiori. Facebook all’inizio dell’università. I nativi della generazione digitale seguono di solito questo percorso di alfabetizzazione tecnologica. Anche se negli ultimi tempi l’età di iniziazione all’uso delle nuove tecnologie va in qualche modo abbassandosi. Lo dice la ricerca sui giovani nello scenario digitale presentata ieri al convegno
Testimoni digitali, da Chiara Giaccardi, docente di Sociologia della comunicazione alla Cattolica di Milano. Ma soprattutto lo studio condotto da un’équipe coordinata proprio dalla studiosa milanese dice che non tutto nel rapporto tra Internet e i giovani deve essere guardato con sospetto o negatività. Anzi, la «buona notizia», per usare le parole della stessa Giaccardi, è «la centralità della dimensione relazionale». In altri termini la Rete, i social network e le chat non sono mondi alienanti dalla realtà, quasi una
second life sognata e parallela alla realtà, ma luoghi in cui si possono costruire, mantenere e rafforzare rapporti interpersonali anche ricchi e veri.«Gli spazi della Rete – ha detto ieri la sociologa, introducendo in aula i risultati della ricerca – non sono luoghi utopici dove proiettare il desiderio di un mondo totalmente altro, ma neppure luoghi autonomi e discontinui dalla dimensione esistenziale concreta». Quella dei giovani non è dunque una generazione di
aut aut, quando piuttosto di
et et. Che poi, detto nel linguaggio dei ricercatori, suona così: «La costruzione di identità e la manutenzione delle relazioni rivelano una stretta relazione e continuità tra
online e
offline, tanto che si può dire che la diffusione dei
social media inaugura un modo socialmente orientato – da parte dei giovani – di abitare il continente digitale. La continuità tra
online e
offline è dunque positiva». E anzi si assiste ad una umanizzazione del luogo, che si configura «come intreccio stabile di relazioni nel tempo». Secondo la ricerca, gli usi relazionali possono essere di quattro tipi.
Organizzativo per organizzare appunto la propria attività e soprattutto il tempo libero.
Denotativo per commentare con gli amici e sui
social network quello che accade nella rete amicale e che permettere di mantenere le relazioni.
Monitorante per un controllo continuo dei "movimenti" dei propri contatti. E infine
fàtico, che nel linguaggio della ricerca sta per un uso finalizzato a mantenere sempre aperta la comunicazione, in maniera da restare continuamente connessi e non sentirsi mai soli.Proprio in virtù di questi usi, la ricerca ha anche smontato alcune aspettative legate «all’utilizzo narcisistico, esibizionista e autoreferenziale di un nascondimento e di un mascheramento di sé». Specie nei
social network «non ha senso nascondersi dietro un
nickname, (nomignolo, ndr), perché lo scopo è anzi essere rintracciabili». Nelle regole non scritte della Rete, infatti, chi si cela dietro false foto o falsi nomi ha qualcosa da nascondere. Come a dire che non si cercano «discrasie» tra la propria immagine
online e
offline. Si tratta di aspetti, che per Chiara Giaccardi, «rappresentano un correttivo alle derive antiumanistiche della cultura contemporanea e aprono delle prospettive nelle quali un umanesimo attento alla totalità della persona può trovare spazio». Dunque, ha concluso la sociologa, «ci pare di poter affermare che i presupposti per un nuovo umanesimo sono più favorevoli rispetto alla cultura di cui è portatrice la generazione degli adulti». Nuovi testimoni digitali crescono.