sabato 27 settembre 2003
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(intervista pubblicata da Avvenire il 27/9/2003)Marcelo Ariel aveva  vent'anni. Di lui si sbarazzarono subito, con un colpo di pistola alla nuca. Marìa Claudia, invece, di anni diciannove, era incinta. Dall'Argentina fu trasferita in Uruguay, partorì, venne uccisa. La bambina fu data in adozione. Succedeva nel 1976, all'indomani del colpo di Stato che portò al potere la giunta militare del generale Videla. Per Juan Gelman, il grande poeta argentino che oggi riceve il premio Lerici Pea, succede tutti i giorni, da 26 anni. Marcelo Ariel era suo figlio, Marìa Claudia sua nuora, la bambina scomparsa sua nipote. In esilio nel momento in cui avvenne la tragedia, Gelman non si è mai arreso alle diverse versioni ufficiali offerte dalle autorità. Ha ritrovato il corpo del figlio, gli ha dato sepoltura. Poi, nel 2000, ha incontrato per la prima volta la nipote rapita. Adesso, per identificare i resti della nuora, è impegnato in una battaglia giudiziaria che appassiona tutta l'America Latina. «Ma l'aspetto peggiore - sottolinea - è che la mia non è una storia straordinaria. È la storia di trentamila famiglia argentine, la storia di una parola, desaparecido, che significa rapimento, tortura, omicidio, occultamento del cadavere. Ho sempre pensato che l'esperienza potesse nutrire la poesia, ma quando mi sono trovato a vivere questo dramma mi sono scontrato con i limiti della parola, ho dovuto ammettere che ci sono casi in cui perfino la poesia può risultare inadeguata». Gelman parla con calma, in un italiano sicuro e appena striato di castigliano. E non ha rinunciato alla speranza, come dimostrano i versi inediti raccolti in "Nel rovescio del mondo", la silloge pubblicata da Interlinea per celebrare l'assegnazione del Lerici Pea (traduzione di Laura Branchini). «Il primo ad accorgersene fu il mio amico Julio Cortàzar - ricorda -. "Ma come fai a dire che nelle mie poesie c'è speranza?", gli chiedevo. "C'è e basta", rispondeva lui». Forse perché, nonostante tutto, le sue parole sono riuscite a cambiare qualcosa? «Può darsi. Vede, in un mio testo cito un verso di Auden che sostiene proprio questo: che la poesia non fa accadere nulla. Ed è vero, intendiamoci. Ma nello stesso tempo è anche vero che molto accade all'interno della poesia. La realtà non è soltanto quello che è successo o che sta succedendo. È anche quello che sarebbe potuto essere e non è stato, è l'infinita possibilità data agli esseri umani. Nella mia vita ho avuto modo di vedere all'opera il male, certo, ma questo non mi autorizza a negare che esista qualcos'altro, un mistero trascendente per il quale faccio fatica a trovare un nome». Eppure Dio viene spesso invocato nei suoi versi. «Non so se, per me, sia davvero il nome giusto. Però so che durante l'esilio ho scoperto la grande letteratura mistica, da Teresa d'Avila e Giovanni della Croce a Meister Eckhart e i testi della Cabbala. Lì ho ritrovato un sentimento assoluto di presenza/assenza di ciò che si ama. Per i mistici si trattava di Dio, per me dell'Argentina». Perché non è più tornato a vivere nel suo Paese? «Preferisco mantenere una certa distanza rispetto all'Argentina. In questi anni è cambiata, e sono cambiato anch'io. Torno a Buenos Aires abbastanza spesso, ma ogni volta devo fare i conti con ciò che ho perduto. Le faccio un esempio: mi è capitato di passare davanti a un ristorante e di ricordare che lì avevo pranzato per l'ultima volta con un amico che poi è stato ucciso dai militari. Entrato nel locale, però, mi sono accorto che tra i clienti c'era un ex ministro della giunta. Seduto lì, tranquillamente, come un cittadino qualsiasi. Non c'è ancora giustizia, in Argentina. Anche la spaventosa crisi economica dello scorso anno nasce da questa ferita mai medicata, da questo cancro della nazione». Parla come se facesse fatica a capire i suoi compatrioti. «Beh, qualcosa che non ho mai capito c'è, in effetti. L'Argentina è un Paese ossessionato dai cadaveri. Pensi al trafugamento delle spoglie di Evita Peròn, tanto per fare un esempio». Anche lei, in fondo, sta cercando i suoi morti. «No, è diverso. Voglio che riposino in pace, tutto qui. Voglio che mi lascino riposare in pace».
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