Alcuni anni fa mi capitò di leggere in anteprima una parte inedita del
Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Per vie che sarebbe noioso esporre, ne era entrato in possesso uno studioso abruzzese, il quale me l’aveva fatto avere tramite il direttore di un quotidiano. La circolazione dell’inedito non era autorizzata e non a caso alcuni anni dopo, quando venne stampato, registrò reazioni e
querelle, riportate anche dai media. Allo scrittore siciliano che in vita non ebbe fortuna di stampe, è infatti toccata in sorte una devozionale attenzione postuma. Se potesse parlare, Tomasi di Lampedusa ne trarrebbe una delle sue implacabili considerazioni, spiegando «come una cosa derivi dall’altra», e non casualmente: a cinquantadue anni dalla pubblicazione del
Gattopardo e a tredici da quella dell’
opera omnia, la sua produzione letteraria – così refrattaria a inquadramenti, così anomala per il suo tempo, così indiscutibilmente autorevole e affascinante – attrae tanto il pubblico quanto la critica, in rara consonanza di gusti tra di loro.Ma non è di questa consonanza che voglio parlare, bensì di una più personale risonanza che l’inedito produsse in me. Prima devo ricordare che la devozione riferita a uno scrittore può essere di due tipi: logorroica o afasica. La prima è di gran lunga più diffusa e prorompe, quando s’incontra un altro innamorato dello stesso autore, in una serie di elogi, esclamazioni, empiti d’amore che possono traguardare anche al fonema metaverbale, cioè alla frantumazione della parola per eccesso d’emozione. La seconda è silenziosa e più rara. Non nutre l’illusione di condividere con altri il proprio amore. Rende gli occhi fuggevoli e sognanti, al sentir nominare da altri il mondo amato che l’artista ha saputo evocare, come se fosse un mondo proprio, rispetto a cui l’ammirazione altrui, oltre che estranea, si pone come tendenzialmente invasiva: come se si avventurasse in territori non suoi, come se perpetrasse una violazione di domicilio interiore. Noi abbiamo in famiglia questo secondo rapporto col
Gattopardo. È uno dei libri della nostra vita. Lo conosciamo, di fatto, a memoria. L’avremo letto venti volte, anzi no, lo leggiamo di continuo, è una
lectio vitalis che c’insegue da scrivanie valigie comodini borse
atajeur, da ogni superficie di appoggio o di contenimento possibile, insieme col resto della produzione narrativa del Lampedusa. Ne usiamo le locuzioni. Ne usiamo le strutture logico-verbali. Ne replichiamo le chimiche. Ne metaforizziamo le scene. Siamo insomma – senza essere mai stati Salina e avendo anzi avuto sorti singolarmente speculari, originatesi proprio negli anni in cui principia il romanzo (sotto cieli molto più a nord, ma sempre sotto gigli borbonici) – gattopardizzati quanto pochi altri, con una sola differenza: pur leggendo il romanzo con occhi rapiti, siamo più riservati di don Fabrizio, per cui certe esternazioni del «principe senza speranze» sulla irredimibile «divinità dei suoi conterranei, affogati nella povertà materiale e nella cieca miseria morale», come pure sul loro nichilismo «in compiaciuta attesa del nulla» ci fanno increspare le labbra e inspirare disapprovazione…la quale resiste pochi istanti ai soprassalti d’amore indotti dalle pagine successive. Mi fermo qui, solo per dare un’idea della base emotiva di partenza che c’era quando, tra i primi, lessi l’inedito che, editorialmente, si chiamò poi del
Gattopardo Innamorato; e che considerai recapitato a me da un appuntamento astrale.Raccontare il
Gattopardo Innamorato è semplice perché il nome dice già tutto: l’Autore progettò, stese e poi abbandonò una parte in cui si narra l’amore del principe per Angelica, la bellissima figlia di don Calogero Sedara. Lei, l’amazzone del nuovo mondo «a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi» s’insedia giorno per giorno, oltre che nel palazzo del Gattopardo a Donnafugata, nel suo cuore. E don Fabrizio – pur non rinunciando a proteggere e accreditare in società l’amore tra la ricca ereditiera e il blasonato ma squattrinato nipote Tancredi Falconeri - è troppo oggettivo per rifiutarsi di riconoscere in se stesso l’insorgenza di questo amore carnale, per una ragazza coetanea delle figlie. Ne è sorpreso all’inizio, ma non lo combatte. Da freddo scrutatore dei moti delle stelle, da spregiudicato contemplatore delle regioni celesti «di perenne certezza», lo accetta. Si abbandona anzi ad esso, è l’unica dimensione che lo faccia sentire ancora vivo: capace di uno scatto felino, capace di artigliare la vita con le gattopardesche zampe e di aggrapparsi ad essa. E poi si tratta di un amore in guerra: perché consegnare tutto un mondo di grazia antica, ancorché fatiscente, alla «volgarità ignorante, che sprizza da ogni poro» del nuovo che avanza, all’ansia di evoluzione sociale di Angelica, al goffo ma occhiuto incedere dell’orrendo padre di lei, icona di ogni
parvenu, nelle stanze della nobiltà? Perché rassegnarsi, anche, al famelico cinismo di Tancredi, avido di trovare in un matrimonio le sbardellate sostanze che gli servono? Il Gattopardo sente che può far saltare tutto ciò. Come un antico feudatario, può far sua Angelica, la preda che, sotto sembianze amorose, è la vera portatrice di eversione rispetto al suo mondo. L’avrà, dopodiché lascerà che le cose seguano il loro corso. Non sarà il suo contributo al nuovo mondo, sarà il suo tributo al vecchio mondo, quello dei «gattopardi e dei leoni», prima che venga inevitabilmente dominato dagli «sciacalletti e dalle iene».Nel romanzo l’Autore dissemina di frammenti amorosi il percorso del Gattopardo verso Angelica, che si colgono in molti passaggi: la lunga scena del ballo tra loro ne è l’ampia, e neppure criptata, metafora. Tomasi per un momento – di quelli che attendono al varco ogni scrittore, come opzione demiurgica d’istradamento dei flussi di trama – intuisce che tutto può avere un soprassalto in direzione della passione, invece che in direzione del sopito, ma latente conflitto tra generazioni e mondi opposti. Pensa d’innestare un finale d’amore scandaloso sulle stesse dinamiche con cui Tancredi e Angelica s’illudono d’irretire il vecchio leone, il quale starà al gioco. E dedica scene, pagine e parole a quest’idea.L’Autore è però anche troppo accorto e dotato di senso artistico per degradare don Fabrizio a «rudere libertino», per impantanarsi nel cattivo gusto di uno «zione» che nutra mire sulla fidanzata del nipote, distruggendo il personaggio. Le architetture di
pulvis et umbra del romanzo ne uscirebbero irrimediabilmente scompensate. Così, dopo essersi sfogato scrivendo, quasi come un
divertissement, questa parte sull’amore del cuore che non invecchia, fa marcia indietro e dà al romanzo – con le mortuarie scene di commiato del 1910, che sono un’altra storia – il giusto
desinit al pulsante
incipit del 1860. Ma con l’inedito riapparso, dà anche a noi, innamorati del
Gattopardo, la prova di un flusso narrativo carsico, e un po’ vergognoso di venire a luce, di cui l’eco risonava ovunque. Flusso che, se sviluppato, più che sboccare in un altro finale, avrebbe reso più inquieto l’attuale.