«La mia fotografia è un modo di riflettere, che proviene dalla vita e si dirige verso la meditazione». Così spiega la sua opera il fotografo di origine iraniana Abbas Attar, classe 1944, che a Roma in questi giorni ha parlato per la prima volta della professione che svolge, presentando una selezione delle foto scattate in giro per il mondo, dal Medio Oriente all’Iran, all’India, alla Mongolia, dove negli ultimi anni è stato impegnato in un lavoro di ricerca sulle religioni. È di base a Parigi e lavora per l’agenzia Magnum.
Come imposta il suo lavoro?«Lo dividerei in tre fasi distinte. La prima, quella delle fotografie, è segnata dalla spontaneità, dal contatto con la realtà e dalla ricerca del modo migliore per rappresentarla. La seconda fase è quella della scelta delle fotografie e della riflessione: dalle migliaia di istantanee scattate occorre scegliere una sequenza di alcune decine che dia un’idea della o delle situazioni. La terza fase per me ha un carattere meditativo, in quanto si tratta di comporre la sequenza scelta in maniera che corrisponda a quello che voglio davvero esprimere. Se dovessi sintetizzare, direi che nel mio caso l’espressione migliore è: scrivere con la luce».
Ci sono dei fotografi a cui si è ispirato o dei libri?«Parlando di me devo dire che mi sento nato fotografo perché è una passione che coltivo da quando avevo undici anni. Libri? No, piuttosto i pittori sono e sono stati importanti. Posso trascorrere ore a guardare i quadri di Van Gogh per i ritratti, di Picasso, di Velasquez. In fondo il fotografo è ispirato da Velasquez, o da Rembrandt. E quando guardo le loro opere penso: se fossi capace di scattare foto come loro dipingevano, non avrei più nulla da dire!».
Cosa pensa dell’Iran di oggi?«Mi sembra che sono tre le categorie sociali da sempre più avanti nel mio Paese: i giovani, le donne, gli artisti. Da queste tre categorie è sempre partito il cambiamento e c’è speranza che accada anche ora, c’è una speranza che la situazione si modifichi. Un Paese schizofrenico dove tutti hanno una vita pubblica diversa da quella privata, che rappresenta l’apice di un processo esteso a buona parte del mondo musulmano alle prese con una islamizzazione strisciante pericolosa, non solo per l’Occidente, ma per le stesse società musulmane».
In che senso?«Dopo l’11 settembre l’islamismo radicale è apparso un pericolo per l’Occidente. Adesso, quasi dieci anni dopo, sono le stesse società musulmane, come stiamo anche vedendo in questi giorni nel Nordafrica, ad accorgersi che i radicali rappresentano prima di tutto un pericolo per loro».
Dove era l’11 settembre del 2001?«In Asia, a Kyzyl, in Siberia, a lavorare ad una serie di servizi sull’animismo e sul ruolo delle religioni. Lì ho appreso dell’11 settembre. Ho appreso dell’attentato dagli sciamani e dalla tv e non ci volevo credere».
Cosa è accaduto dopo?«Mi sono chiesto se dovessi proseguire oppure accantonare il progetto sull’animismo per raccontare piuttosto in che modo la religione diventa importante per definire l’identità di un popolo».
Quale è la conclusione?«Non ho una conclusione. Ho raccolto il risultato del lavoro sulla religione nel libro
In whose name, pubblicato in inglese e francese, che raccoglie reportage in 16 Paesi asiatici e negli Usa, dopo l’11 settembre. Mi chiedo quanti conflitti ideologici, economici, nazionalisti, sono percepiti oggi non nei loro termini esatte ma secondo la prospettiva di conflitto religioso. La risposta è positiva perché tanta ideologia religiosa nasconde problemi di altra natura e svia dal trovare soluzioni».
Quale soluzione intravede?«Non so rispondere perché il mio mestiere è il fotoreporter, dunque il mio compito è documentare quel che accade. E verifico sempre che chi vede le foto o i reportage può interpretarli in maniera diversa da quelle che erano le mie intenzioni di partenza. Dunque questi sono i limiti del lavoro che svolgo».