Anticipiamo alcuni stralci della raccolta "Parole chiare", in libreria dal 12 gennaio ed edita da Giuntina (pagine 160, euro 16,00). Sette scrittori e un fotografo raccontano quel che furono (e quel che sono diventati) i luoghi della "persecuzione della diversità" nel nostro Paese durante il fascismo e l’occupazione nazista. Da Fossoli a Ferramonti di Tarsia, dalle Fosse Ardeatine e via Tasso a Roma alle isole Tremiti, passando per Agnone, Meina, la Risiera di San Sabba, gli scrittori riflettono sui meccanismi che si instaurarono nel nostro Paese, nel corso della Seconda guerra mondiale, contro le categorie invise al regime: ebrei, omosessuali, rom e sinti, dissidenti e avversari politici. Curato da Sira Fatucci e Lia Tagliacozzo (Unione delle comunità ebraiche italiane), il volume offre contributi di Fulvio Abbate, Eraldo Affinati, Marco Rossi Doria, Gianfranco Goretti, Ettore Mo, Elena Stancanelli, Emanuele Trevi e del fotografo Luigi Baldelli, ognuno dei quali offre un tassello di quella Memoria della quale il prossimo 27 gennaio si celebra la Giornata: un’occasione per fare il "punto della situazione" su alcuni momenti drammatici di quei durissimi anni in Italia e sullo stato in cui versano quei luoghi teatro di tragici eventi.
di Eraldo AffinatiFossoli è l’anticamera dell’abisso: il luogo dei congedi definitivi, delle partenze senza ritorno, l’ultimo avamposto di una speranza estrema, poco prima che scompaia del tutto, insieme a quanti ancora la nutrivano. Il giorno del mio arrivo lo splendore del sole all’inizio sembra incongruo, ma con il trascorrere delle ore diventa significativo: sentenzia la vittoria della natura sulla storia, della vita contro la morte. Una voce flebile, ma chiara, sembra risuonare tutto intorno. Chi tende gli orecchi può distinguerla: «Dobbiamo fare in modo che l’erba sui legni non resti vana, alla maniera di un discorso inascoltato; non sia cieca, come le onde che battono sulla scogliera. Altrimenti – lascia intendere questo sussurro misterioso – i fiori e gli alberi cresciuti vicino alle baracche assomiglierebbero al sopruso compiuto al loro interno». Le giovani guide illustrano le travagliate vicende del famigerato pezzo di terra padana, alla periferia di Carpi. Camminando nei viali in testa ai gruppi in visita, i volontari, spesso giovanissimi, nella tenera dovizia che li contraddistingue, dicono le cose giuste: il campo nasce nel maggio 1942 come carcere per prigionieri di guerra alleati. Funziona così fino all’8 settembre 1943. Dal 5 dicembre, sotto la gestione della Repubblica sociale, si trasforma in un centro di raccolta per ebrei e oppositori politici. I primi mesi dell’anno successivo entrano in scena le SS tedesche che fondano il campo nuovo. Cominciano ad essere organizzati i convogli delle deportazioni: su quello del 22 febbraio sale Primo Levi. Ascoltiamo tali notizie come se provenissero da una radio scassata: la linea non è buona, il segnale va e viene, spesso s’interrompe, poi riprende. La voce giunge disturbata dal tumulto emotivo. Certe informazioni sono indispensabili e tuttavia a molti di noi paiono ininfluenti. Abbiamo ancora in testa il ricordo indelebile delle prime scene di Se questo è un uomo. L’attacco, formidabile, in cui l’autore rievoca il suo breve soggiorno a Fossoli, vale cento punti secchi nella ruota della vera comprensione, rispetto ai dieci garantiti dagli schemi e dai disegni del campo vecchio (rimasto sotto l’amministrazione repubblichina fino all’inverno del 1944 e quindi chiuso) e di quello nuovo (che, dopo il trasferimento della stazione a Gries, vicino a Bolzano, assumerà l’aspetto di un crocevia temporaneo per lavoratori coatti da inviare nel Reich). Il 19 febbraio era partito, dalla stazione di Carpi, il primo treno diretto a Bergen-Belsen. Due giorni dopo nel campo si venne a sapere che un altro carico sarebbe stato fatto nelle ore successive. Bisognava prepararsi per un viaggio di quindici giorni. L’ordine era di tenersi pronti: bambini, vecchi e malati. In seguito a questa drammatica comunicazione, la scansione quotidiana non subì cambiamenti. Tranne piccole, inequivocabili, lancinanti eccezioni. Agli scolari i maestri non assegnarono il compito per il giorno dopo. Le madri prepararono il cibo da portarsi dietro, lavarono i panni e appesero la biancheria infantile ad asciugare sui fili spinati. «E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire». La sintassi è strappata. Il dettato prende la forma del singulto. Le lacrime vengono ricacciate in gola. Il testo restituisce come meglio non si potrebbe lo smarrimento, il trauma. Cosa accadde quella notte resta avvolto nel mistero. Il resoconto del giovane chimico si fa secco, avaro, essenziale, ma proprio per questo ancora più evocativo. Bastano poche righe per svelare qualcosa d’innominabile e raccapricciante. «Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione». In terra italiana si apre uno squarcio dell’inferno novecentesco.