Avete mai pensato alle lingue del camaleonte, del formichiere, del picchio verde? Conoscete il
chiasmodon niger, il pesce degli abissi detto anche “black swallower” che ha uno stomaco elastico che gli permette di inghiottire pesci ben più grossi della sua taglia? E la sterna paradisea, che ogni anno vola per 70.000 chilometri dall’Artide all’Antartide, coprendo così durante la sua esistenza un po’ di più di sei volte la distanza dalla Terra alla Luna? E la
cyphonia clavata, quel tipo di mosca innocua che porta sulla schiena un travestimento da formica velenosa per proteggersi? E l’araneus
rota, ragno del deserto che ha il colore della sabbia e si sposta facendo la ruota sulle sue otto zampe sottili? Ma perché concentrarsi su questi animali rari? Una mucca che bruca pacificamente l’erba possiede una forma completamente originale e farebbe la figura di una bestia favolosa là dove non ci fossero che ricci di mare o canguri… Un giorno il rabbino Nissim di Charenton mi propose quest’osservazione esegetica: «Prima dei dieci comandamenti ci sono le dieci piaghe d’Egitto, e prima delle dieci piaghe d’Egitto ci sono le dieci parole con cui l’Eterno creò tutta la diversità dell’universo». Con questo voleva dire che non è possibile aprirsi alla vera morale senza avere considerato prima il dramma della storia e la fantasia della creazione. Quest’ultimo punto significa che il Dio che proibisce l’adulterio è lo stesso che ha creato la piovra e lo struzzo, o che onorare il padre e la madre entra in risonanza con l’invenzione del rospo delle canne, della talpa dal naso stellato, del
Casuarius casuarius e delle galassie… Dove va a parare una simile constatazione? mi chiederete. Semplicemente all’idea che la legge divina, lungi dallo schiacciarci, c’è per renderci partecipi di questa creatività abracadabresca. Perché, bisogna riconoscerlo, davanti a un tale guazzabuglio di esseri viventi così bizzarri, l’immagine fondamentalista della divinità può solamente sgretolarsi e lasciare spazio alla visione di un poeta sconcertante, ultrasurrealista, amico del grottesco, esploratore di tutte le combinazioni fino alle più incredibili. Purtroppo, quando vi trovate al museo di storia naturale di New York per ammirare l’esposizione
Life at the Limits e non potete non stupirvi davanti alle stravaganze a trecentosessanta gradi della natura, una voce off non smette di cercar di azzittire la voce della vostra coscienza e di ridurre il vostro stupore alle norme del funzionalismo e del
management contemporanei. Vi ripete, infatti, che tutto questo è solamente il prodotto di
struggle for life, la lotta per la vita, il caso, la selezione naturale, l’adattamento, competitizione... La sterna dell’Artide farebbe quei milioni di chilometri solo per la sua sopravvivenza, il che la renderebbe più piccione di un piccione, poiché perlomeno quest’ultimo può accontentarsi per sopravvivere di ogni piccolo spazio. E la vita, in generale, sarebbe molto più stupida del più piccolo sasso, poiché farebbe sforzi inauditi per giungere a una conservazione molto più precaria di quella di quest’ultimo. Ma non importa, ragazzo mio! Bisogna battersi per un salario miserabile! Bisogna adattarsi all’estensione indefinita del campo di lotta! Bisogna essere sempre più stupidi e competitivi! È così che la divulgazione scientifica del Museo di storia naturale si sforza di proiettare sullo splendore che ci riempie gli occhi la cupa concorrenza del mercato capitalista e non vede nell’apparizione delle specie altro che l’applicazione di quei principi che valgono innanzitutto per l’erezione dei grattacieli newyorchesi. Ed è così che le dieci parole creatrici, che sono la condizione per l’ascolto dei dieci comandamenti, sono spogliate della loro libertà. Tutta la loro poesia è ricondotta a uno stretto utilitarismo, affinché tutti i comandamenti si riducano al solo “Adattati o crepa!” che è il vero motto del progresso.
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