Una manciata di lettere spedite da Vicenza tra la fine del 1905 e l’estate del 1906. Cinque messaggi inediti nella cornice della tempesta modernista. Destinataria Gida Rossi, un’educatrice cattolica bresciana, ma insegnante a Bologna. Il mittente? Antonio Fogazzaro. A pubblicare i testi è Enrico Castelnovi che li accompagna con un saggio introduttivo sul nuovo numero della rivista
Humanitas della Morcelliana. E, fra le tracce della relazione epistolare, affiorano riferimenti di grande interesse alla vicenda del romanzo
Il Santo, il capolavoro fogazzariano che esprimeva il bisogno di una fede in armonia con la scienza moderna, finito nell’Indice dei libri proibiti il 5 aprile 1906. Ma fermiamoci sui frammenti più significativi. «Signorina, bisogna lavorare nella notte, come disse Benedetto», scrive Fogazzaro alla Rossi il 28 novembre 1905, richiamando il nuovo nome di quel Piero Maironi, ritiratosi a vita ascetica in un convento benedettino tormentato protagonista del
Santo. E, quasi a sintetizzare le motivazioni ideali sottese al romanzo pubblicato da poche settimane, continua: «Bisogna che ciascuno e specialmente chi ha la missione di educare, lavori a propagare nel proprio ambiente, presso i credenti, l’idea che la fede è necessaria, ma che l’essenziale è di viverla; presso i non credenti l’idea che si prepara nel seno del Cattolicesimo un movimento intellettuale impossibile ad arrestare, per il quale andrà travolto tutto che più li offende, restando sempre in Cristo, la Via, la Verità, la Vita, e restando i misteri necessari e invincibili. Altro per ora non si può fare e questo bisogna farlo senza ribellioni alla Chiesa e alle sue leggi. Così poco a poco si creerà nel seno della Chiesa quella opinione che diventando universale e sovrana ne trasformerà giusta i nostri desideri l’elemento umano e mutabile. Lungo e oscuro lavoro, del quale molti lavoratori non vedranno alcun frutto, ma che ne darà un giorno di grandi e mirabili». Passano i mesi , il libro, già best seller, finisce sotto la scure dell’Indice, e l’autore, suo malgrado salutato come il leader del riformismo religioso, reagisce nel modo spiegato dalla lettera a Filippo Crispolti del 18 aprile 1906 uscita sull’<+corsivo_bandiera>
Avvenire d’Italia<+tondo_bandiera>. «Io ho risoluto sin dal primo momento di prestare al Decreto quell’obbedienza ch’è il mio dovere di cattolico, ossia di non discuterlo, di non operare in contraddizione di esso autorizzando altre traduzioni e ristampe …». Sul significato di questa sottomissione, interpretata da molti come un sorprendente atto servile e un’abdicazione alla propria libertà di coscienza, è utile vedere cosa scrive il Fogazzaro alla Rossi il 26 maggio 1906, dopo i ringraziamenti per averlo difeso in una «adunanza della Sezione bolognese degl’insegnanti» che aveva trattato il suo caso. «[…] Memore della simpatia ch’Ella mi espresse in passato per le idee del
Santo […], le confermo la mia intatta fede in quelle idee che tutte mantengo, perché poi ignoro affatto le ragioni, forse di pura opportunità, della condanna, e Le esprimo la mia convinzione che per difenderle utilmente bisogna restare dentro la cerchia della Chiesa Cattolica, nel divino elemento della quale ho sempre creduto e credo con intera devozione. Grazie ancora e procediamo quanti ci sentiamo uniti in Cristo-Verità con coraggio». Ancor più illuminante la missiva del 1° giugno 1906 che val la pena riportare: «Non posso ammettere per la mia sottomissione, la qualifica di incondizionata. La mia sottomissione è stata puramente un atto di obbedienza esterna, una risoluzione di non operare contro il Decreto. I clericali intransigenti, i quali dicono che la forma della mia sottomissione non è soddisfacente, avrebbero voluto la formola "Condanno nell’opera mia tutto quello che la C. dell’Indice vi ha condannato". Infatti quella è la formola consueta. Ma neppure una parola è nelle mie lettere al Crispolti che possa venire intesa in senso simile a questo. Io ho abbondato nel definire, usando gli stessi termini del decreto, la sottomissione esterna, proprio per escludere la sottomissione interna, un qualsiasi pentimento, un qualsiasi riconoscimento di errori nel libro». Così il Fogazzaro che concludeva: «I clericali mi hanno capito, gli anticlericali non mi hanno voluto capire. Ma tutti capiranno col tempo; tutti capiranno che io ho voluto restare esemplarmente nella Chiesa anche per continuare a operare con frutto secondo le mie idee, secondo la mia fede nell’avvenire del Cattolicesimo. Chi esce dalla Chiesa, a parte la sua coscienza, si condanna alla sterilità». Resta il fatto che la condanna, voluta da Pio X proprio perché lo scrittore si professava cattolico e finiva per spalleggiare tanti giovani, amareggiò molto il Fogazzaro: consapevole che la censura non riguardava «errori dogmatici», ma le idee di riforma sostenute nel suo libro, all’alba del ’900 un inno all’«ammodernamento» della Chiesa.