Il pubblico degli addetti ai lavori ha cominciato fischiare e ridere a metà film, e non ha più smesso. Eppure "Quando la notte" di Cristina Comencini, storia di una maternità tormentata sceneggiata insieme a Doriana Leondeff, presentato ieri in concorso a Venezia, non è certo un film comico, anzi. E al Lido scoppia la polemica per l’abolizione delle cosiddette proiezioni stampa. Da quest’anno infatti i giornalisti sono tornati a vedere i film in concorso nella grande arena del Paladarsena che accoglie anche gli accrediti Industry (addetti stampa, produzioni, distribuzioni, etc), con il risultato che tra risate, sberleffi e continui commenti sembra di stare allo stadio invece che a una Mostra del Cinema. Proprio questa gazzarra aveva convinto il Festival qualche anno fa a proteggere i film della competizione con proiezioni più tranquille. Tutto sommato meglio la freddezza con cui la stampa negli scorsi anni accoglieva molti film che il feroce gioco al massacro di questi giorni. «È la prima volta che mi capita una cosa del genere. Ognuno è libero di accogliere il film come meglio crede, ma questa reazione è inaudita. Il tema è forte, uomini e donne lo vedranno probabilmente con occhi diversi, i critici, che rispetto così come il Festival di Venezia, potranno scrivere domani quello che pensano. Ma questo accanimento proprio non lo capisco ». Così la Comencini difende la sua pellicola, nelle sale a fine ottobre, mentre il marito produttore Riccardo Tozzi aggiunge: «Posso accettare che il pubblico linci un’opera al termine della proiezione, ma che dopo mezz’ora il film venga destabilizzato in questa maniera rischia di cambiare la percezione di tutti. Non credo ai complotti, ma di certo la proiezione per la stampa è stata inficiata da gruppi spontanei». A chiudere una giornata tesa, nella proiezione serale, ribaltando completamente il clima, sono arrivati cinque minuti di applausi. E il volto teso della regista si è sciolto in un sorriso. Ambientato tra le aspre montagne di Macugnaga, il film racconta l’incontro tra una giovane donna (Claudia Pandolfi), sola di fronte alla propria incapacità di essere una brava madre, e un ruvido montanaro (Filippo Timi), che sembra aver penetrato quell’inconfessabile segreto. I due si spiano, si riconoscono, si amano, si lasciano, si ritrovano in una zona d’ombra dove non ci si può più nascondere. Riuscito nella prima parte in cui la regista mette in scena il quotidiano, normale disagio e la solitudine della madre in vacanza con il suo piccolo, schiacciata dalla paura di non essere all’altezza del compito («perché nessuno dice mai quanto è difficile essere madre?» chiede disperata in una scena), il film mostra le sue debolezze quando la storia d’amore tra i due protagonisti ha inizio. A questo punto l’interpretazione dei due attori si fa più goffa, meno convinta nel pronunciare frasi che sembrano perdere la loro verità cambiando addirittura di segno. «Qualsiasi madre conosce quella solitudine pericolosa – dice ancora la regista – eppure la maternità è un argomento del quale non si parla volentieri».