Circola un film sul grande schermo, nelle rare sale del deserto agostano, che con sole 11 copie in autodistribuzione è tra i dieci film più visti del fine settimana, con la media copia più alta dopo il Re Leone e con un incasso totale di circa 30.000 euro. Sintetizza in maniera lieve, eppure preoccupante, il caos totale di questi “strani giorni”. Si tratta de L’ospite, seconda prova di Duccio Chiarini. No, non è un altro filmdossier sui migranti e nemmeno il solito “pastiche” degli amorosi sensi alla Almodovar, ma è davvero un «romanzo di formazione, tardivo», come lo definisce il 42enne regista fiorentino, che, sia pure con qualche ingenuità da limare, conferma quanto di buono aveva espresso al debutto, nel 2015, con Short Skin: i dolori del giovane Edo). L’ospite è una commedia brillante che però fa passare il messaggio drammatico dell’apocalisse esistenziale di quest’epoca.
È la denuncia ansiogena dell’insostenibile superficialità della comunicazione, delle relazioni che, oltre che pericolose, sono istantanee come un WhatsApp, e terribilmente banali. La banalità del male interiore di una generazione che non solo non riesce a governare un Paese, ma neppure le sue passioni. Il protagonista, il bravissimo Daniele Parisi (il suo “Guido” sta tra il Nanni Moretti di Bianca e il Fabris di Compagni di scuola di Carlo Verdone), recita il ruolo della vittima sacrificale e del riequilibratore morale di questo caos emotivo permanente. È il nomade metropolitano che si autosfratta dall’appartamento in cui convive con l’altrettanto affascinante e brava Silvia D’Amico (Anna), costretto, quando la coppia scoppia, a rifugiarsi dall’improvviso tsunami sentimentale.
A quel punto, al povero Guido, angosciato e vessato per il suo reiterato complesso di Edipo (manifestato dalle mutande che gli compra e gli lava la madre) non rimane che la fuga. Un viaggio sui divani degli altri è il sottotitolo cinico, “monicelliano” di Chiarini che attraverso lo spaesatissimo Guido entra nelle case e nelle vite dei suoi amici che si dibattono in altrettanti complicatissimi menage famigliari. Il single impenitente che si innamora con la velocità di un jet e con la logica postkantiana, del «se non lo fai adesso che hai 40 anni, quando?». La coppia con bambino, in attesa del secondo figlio, in cui la donna è pronta a lasciare il suo Pietro per fare il suo Corso, nome del terzo incomodo, altrettanto confuso e infelice, come tutti.
L’unico riscatto, l’unica passione pura, incontaminata - nonostante l’infinita gavetta e la delusione del sistema universitario reale - che tiene a galla Guido, è l’insegnamento. Dare agli altri senza chiedere nulla in cambio, se non la giusta e doverosa attenzione (quella che il mondo accademico gli nega, perché più interessato alla parmigiana cucinata dalla madre), riuscendo ad insegnare i Sonetti del Foscolo e a farli leggere nell’ultimo liceo di periferia a una ragazzina nigeriana. Questo è il vero riscatto di un quotidiano fatto di piccoli equivoci e di grandi sconfitte personali. Guido è il difensore della normalità, della famiglia: sente che è maturo per diventare padre, ma avverte anche la paura di non essere più figlio a sua volta. La paura che una storia d’amore sia per sempre, ma anche il timore ossessivo del contrario. La paura di lasciare la casa dei genitori e quella di doverci tornare prima o poi. Perché costretti ad abbandonare quel vecchio divano rosso, che eppure a Guido sembrava il più bello del mondo, il posto più comodo dove sedersi e invecchiare, senza paura.