Aveva un grande mestiere nelle mani ma voleva far ridere a tutti i costi e non si fece scrupolo di realizzare film che sfioravano il
trash insieme a storie profonde come
Il Gattopardo e
Rocco e i suoi fratelli a cui aveva offerto un valido contributo in qualità di sceneggiatore. Se fosse per tanta roba realizzata come regista resterebbe poco di Pasquale Festa Campanile, per film divertenti ma sempre al limite del
trash. Per nostra e sua fortuna Pasqualino, come lo chiamavamo al mio paese lucano, aveva qualcosa che lo costringeva alla riflessione profonda su questioni religiose e politiche.Lo ricordo nell’estate torrida della Basilicata, negli anni Settanta, quando arrivava a Melfi spesso in compagnia di qualche attrice, sotto un panama bianco e nel lino bianco del vestito. Lì era nato e aveva trascorso la prima parte dell’infanzia, in una strada che saliva a perpendicolo verso il Castello normanno, era poi rimasto a far compagnia, su mandato del padre, a quella nonna Sabella che sarebbe diventata più tardi protagonista del suo primo e miglior romanzo. Vi si raccontava la nascita e formazione del Partito socialista in una parte d’Italia che Carlo Levi aveva descritto, pochi anni prima,come lontana da Dio e dagli uomini. La caratterizzazione di una donna coriacea e legata al paese dove si stava formando con lentezza e difficoltà la borghesia.
Nonna Sabella, legata al paese era una donna di chiesa, per sua disgrazia aveva dovuto far fronte al socialismo del marito e tuttavia con difficoltà si decideva ad allontanarsi dai ricordi.Una scena straordinaria di chiusura, poetica ed espressionista, vede la nonna che lancia dal finestrino del treno il vaso da notte di ceramica, un oggetto che ha accolto tutti i ricordi di famiglia. Era Pasqualino che gettava quel vaso e si preparava a una nuova vita e a un nuovo mondo. Restavano tuttavia i ricordi socialisti del nonno e la tensione cristiana della nonna che quelle idee rivoluzionarie e atee non riusciva ad accettare, ma che per Festa Campanile erano i tempi futuri.Questa posizione politica e culturale sarebbe tornata allorché provava a inventare la storia di Caleb, il ladrone buono del Vangelo. Con un Enrico Montesano che faceva da sostegno alla sua voglia di divertimento e che si abbandonava a battute e a gag spesso surreali, come la sequenza del cane da pastore che diventa suo compagno e baro nel gioco delle carte, o il furto delle perle che il ladrone inghiottiva e più tardi depositava in un pitale.Un Vangelo reinventato dunque come un apocrifo del XX secolo, costruito a dimensione di un pubblico largo, il pubblico dei semplicioni e dei furbi che amavano la commedia. Sembrava che si ponesse il compito di indurre a riflettere facendo ridere e sorridere. Non c’era la forza dirompente di Pasolini, la rabbia corsara, c’era una giocosità tenue che voleva imitare la parabola del Vangelo.Rivedo Campanile a Potenza, a distanza di un anno dalla versione cinematografica de
Il ladrone, nell’autunno dell’81, membro della giuria narrativa del premio Basilicata. Con lui c’erano Geno Pampaloni e Carlo Bo e quell’anno vinse Luigi Santucci. Lo rivedo nel maglione nero e poi nell’abito elegante con camicia scurissima. Tornava in Basilicata per amore di quella terra e per una passione mai negata, far parte della società letteraria, suo grande amore, se è vero che prima di darsi alla sceneggiatura e poi alla regia aveva fatto parte della redazione de «La Fiera Letteraria». Sua aspirazione era farsi riconoscere come regista ma soprattutto come scrittore. Tant’è che pubblicamente ammise quella sera che il maggior piacere della sua vita era stato aver vinto il premio Campiello.Il premio era andato al romanzo
Per amore solo per amore. Campanile raccontava la storia di un vecchio falegname, Giuseppe, sorpreso dalla voce dell’angelo il quale viene ad annunciare che gli tocca far da marito a Maria, una ragazza poco più che adolescente. La quotidianità di Nazareth, i turbamenti del vecchio Giuseppe di fronte a una società che ammicca quando lui si gira di spalle, il vecchio intenerito dalla ragazza che gli dorme affianco, ma che con fatica riesce a cogliere qual è il suo compito, sono i segni di un Vangelo di uomini raccontato agli uomini. Un Vangelo narrato con gli strumenti della semplicità. Il Vangelo di Giuseppe falegname, che ha per apprendista un figlio che è nato per fare altro che l’artigiano. Una storia nata dalla metodologia della scuola delle
Annales e che non corre dietro ai grandi eventi ma porta vicende di duemila anni orsono nella vita se non del presente in un tempo di sempre, quello della familiarità tra padre e figlio, tra moglie e marito. Il libro raccontava proprio questo, il segreto di una casa e di una famiglia simile a tutte le altre ma resa inquieta da una missione.Il tema sarebbe tornato più tardi in
Buon Natale buon anno. La famiglia al tempo della crisi, le liti tra figli e la vecchiaia di un uomo e di una donna che vengono brutalmente separati. A ognuno dei figli tocca tenere in casa uno dei genitori. Campanile risolveva la questione in maniera semplice e rapida, i due vecchi costruivano un piano di fuga che li avrebbe allontanati dai figli e portati a vivere insieme con la miseria della pensione ma con la felicità dei sentimenti. Una piccola parabola che tornava ad esprimere la visione di un narratore nato in una famiglia tradizionalista e avvicinatosi per ragioni di mestiere a una società stravolgente come quella del cinema.