mercoledì 15 febbraio 2017
Compie oggi 80 anni il padre gesuita, figura centrale della settima arte italiana: «Mi sento discepolo della ricerca di autenticità di Rossellini, Pasolini e Fellini»
Roma 1968. Il gesuita Fantuzzi con Pasolini negli studi Rai di via Teulada durante il montaggio di “Appunti per un film sull’India”

Roma 1968. Il gesuita Fantuzzi con Pasolini negli studi Rai di via Teulada durante il montaggio di “Appunti per un film sull’India”

COMMENTA E CONDIVIDI

Si è sempre percepito e avvertito come uno storico e un esperto di arte, in particolare di pittura, prestato per la sua passione a quella disciplina che avrebbe cadenzato ma anche modellato la sua vita di sacerdote e di studioso: la critica cinematografica. È la storia e la trama – «simile all'avventura di un romanzo» (ama definirla così) – di padre Virgilio Fantuzzi, classe 1937, storica firma de “La Civiltà Cattolica” (su cui scrive con continuità dal 1973 a oggi) e riconosciuto da tutti gli esperti di settore come il “gesuita del cinema”, che proprio oggi taglia il traguardo degli 80 anni di vita.

Un traguardo quello di questo sacerdote di origini mantovane – incontrato per l’occasione proprio a Roma a Villa Malta, la sede de “La Civiltà Cattolica” – vissuto come il pretesto privilegiato per aprire con lui l’album dei suoi ricordi sugli incontri e sui fatti, spesso aneddoti che lo videro protagonista o marginale ma acuto spettatore di eventi con al centro personaggi come Luchino Visconti, Suso Cecchi d’Amico, Peppino Rotunno, Vittorio De Sica, Michelangelo Antonioni, Gian Luigi Rondi («di cui recentemente sono stato proprio io a celebrare i funerali rievocando di come egli fu l’indiretto tramite del rapporto di Fellini con il mondo di noi gesuiti… proprio negli stessi anni della preparazione un film intriso di spirito francescano come La Strada, tanto amato, guarda caso, da papa Francesco…») fino ai registi conosciuti da “vicino” come Marco Bellocchio, Martin Scorsese («di cui ho apprezzato soprattutto ora la realizzazione di Silence per la sua aderenza alla spiritualità ignaziana, avendo però ben presente tutta la sua filmografia precedente a cominciare da Mean Streets a L’ultima tentazione di Cristo e senza mai dimenticare il suo retroterra cattolico e il suo senso del peccato») o il «mio grande amico Bernardo Bertolucci» di cui – proprio il critico cinematografico de “La Civiltà Cattolica” – seppe dare una lettura «larga e non troppo censoria quasi da “confessore” – e lo dice quasi sorridendo – di un’opera complessa e controversa come Ultimo tango a Parigi… ».


La sua ricerca e la sua passione attorno al mondo del grande schermo, nata alla scuola di Christian Metz e della sua semiologia del cinema, ha avuto come sue stelle polari soprattutto tre cineasti conosciuti nel profondo e frequentati fino alla loro morte: Roberto Rossellini, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Per quale motivo?

«In particolare per il loro insito messaggio evangelico. Pur apprezzando la ricerca anche di tipo esistenziale di grandi cineasti come Visconti, Antonioni e De Sica che ebbi tra l’altro l’occasione di intervistare per un periodico sudamericano, in questi tre artisti ho rintracciato la radice di senso e quelle pulsioni, dei “veri poteri di seduzione”, che erano in grado di suscitare in me uomini come Rossellini, Pasolini e Fellini. Sono state le domande attorno alla mia vocazione, la loro curiosità la voglia di scoprire come realizzavano le loro pellicole, il loro “metodo di cinema” ma anche il fatto di dedicarmi tanto del loro tempo (quante le notti in giro per Roma trascorse con loro per parlare della settima arte e di “tipi umani” come direbbe Fellini) a farmi diventare in un certo senso un loro discepolo».


Nella filmografia di Rossellini, Pasolini e Fellini lei ha sempre intravisto uno sguardo particolare per la loro attenzione ai disgraziati, ai dimenticati da Dio. Può spiegare il perché?

«Si è trattato di incontri a mezza strada tra il mio e il loro mondo. Se si rivedono i capolavori di questi grandi artisti come Roma città aperta con il suo sottofondo in un certo senso cristologico, Francesco giullare di Dio, Amore di Rossellini, Accattone di Pasolini o La Strada di Fellini si evince l’intreccio tra questi tre autori e il loro comune percorso di ricerca dell’autentico attraverso l’umile: un riflesso di spiritualità in persone che cercano spiragli di luce nella sua vita. Proprio grazie a questi capolavori e la narrazione di questa pietas presente in queste produzioni hanno rappresentato proprio per me dei modelli da imitare anche per la mia vita di giovane gesuita ancora in formazione».


Come conobbe questi tre grandi artisti e quale debito di riconoscenza nutre ancora verso di loro…

«Se ho conosciuto da vicino Roberto Rossellini bene lo devo al mio confratello e futuro cardinale di Milano Carlo Maria Martini che mi permise di partecipare ai lavori di rifacimento dei testi dello sceneggiato della Rai Atti degli Apostoli nel 1969 di cui l’allora gesuita piemontese era assieme al padre Stanislas Lyonnet uno dei consulenti biblici. Da allora nacque un’amicizia che è durata fino alla sua morte nel 1977. Ogni anno la famiglia “allargata” dei Rossellini vuole che sia io proprio nella mia veste di “prete di casa” qui alla “Civiltà Cattolica” a ricordare con una Messa di suffragio il mio amico Roberto. Con Pier Paolo invece fu nel 1964 a folgorarmi il suo film Il Vangelo secondo Matteo: lì ho intravisto una coerenza e una fedeltà con il testo evangelico che mai avevo incontrato in altre pellicole. A lui devo la partecipazione alle discussioni del gruppo redazionale della rivista “Cinema e film”. Mi rimane di lui – che si professava “non credente” – la sua attenzione alla mia storia e a quel suo continuo chiedermi “perché mi ero fatto prete”. Mi ha sempre impressionato quanto ritenesse importante la questione della pedagogia e del linguaggio nelle sue opere. Federico l’ho sempre ritenuto uno di casa grazie anche alla comune amicizia con il mio confratello Angelo Arpa, il “prete di Fellini”. Tanti sono i ricordi su di lui, tra cui le frequenti te- lefonate dedicate al confronto a tu per tu a molte delle mie recensioni ai suoi film, come il fatto che mi permise di assistere ad importanti set (ricordo ancora le sue parole “lei può venire quando vuole…”) come Satyricon o La voce della luna. Tra gli aspetti che più mi hanno fatto piacere è stato poter ospitare pochi anni prima della sua morte un’intervista proprio a Fellini su “La Civiltà Cattolica” che rappresentava in un certo senso un omaggio e un atto di riconoscenza verso questo maestro del cinema che solo pochi anni prima nel 1960 proprio su questa stessa rivista fu stroncato senza possibilità di ripensamenti per la Dolce Vita dal gesuita Enrico Baragli».


Dopo la scomparsa di Angelo Arpa, Nazareno Taddei, Eugenio Bruno, Enrico Baragli lei è in un certo senso l’ultimo testimone di una generazione di gesuiti con il pallino del cinema… Quale eredità si sente di lasciare ai posteri?

«Credo che con me si chiuda il sipario in un certo senso di un mondo che non esiste più. Dietro alla presentazione di eventi come un film di Fellini diventava quasi istituzionale la presenza di un gesuita esperto. Mi avverto in un certo senso come “un vecchio arnese archeologico” rispetto a un mondo che cambia, penso ai social network e a internet, che cerca nonostante tutto di tenere accesa quella fiamma di luce e di magia che è la critica cinematografica e di offrire così anche a chi è meno attrezzato quelle chiavi di lettura non solo per gustare un film ma anche per cercare di capirlo».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: