Il fisico Federico Faggin ieri al Festivaletteratura di Mantova - Giorgio Boato
Quando qualcuno mangia una marmellata di albicocche contemporaneamente nel cervello si registrano degli stimoli elettrici, «ma il sapore dov’è?». Il fisico Federico Faggin usa un esempio semplice per dire che «noi non obbediamo a stimoli elettrici », che l’essere umano, insomma, è indipendente da quei fenomeni, anche biologici che per alcuni scienziati di oggi lo determinerebbero. Tanto più per quella dimensione «privata non riducibile ad algoritmi» che è la coscienza. Proprio una nuova teoria della coscienza e della conoscenza è quella che Faggin propone in Irriducibile (Mondadori), presentato ieri a Mantova dall’autore accompagnato dalla giornalista di Rai 3 Scienza Elisabetta Tola. Vicentino – e l’accento non è stato scalfito dagli ormai 60 anni di vita americana – classe 1941, Faggin è stato l’inventore del microchip e ha posto poi le premesse per il touchscreen. È in pratica l’uomo a cui dobbiamo lo sviluppo dei mezzi che accompagnano ormai la nostra vita. «Come questo telefonino», dice l’interlocutrice alzando il suo. Ma quello è solo «un telefonino in disguisa », ribatte lui concedendosi il vezzo dell’arcaismo. In realtà la conferenza è una cavalcata dagli anni pionieristici alla modernità. Faggin, insignito da onorificenze del presidente Usa Obama e del nostro presidente della Repubblica, ricorda gli anni in cui da 19enne perito elettronico appena diplomato, scuola che aveva dovuto imporre al riluttante papà filosofo, alla Olivetti aveva progettato un calcolatore sperimentale. Poi il salto negli Usa con la Sgs Fairchild, dove ha inventato una nuova tecnologia che ha permesso la creazione del primo processore, il 4004 della Intel («ma ho faticato a convincere i miei capi a farlo»). All’81enne di oggi non manca la caparbietà del 19enne. «Volevo capire come funzionavano i transistori – dice – e perciò all’università ho studiato fisica e non ingegneria come sarebbe stato naturale dopo il diploma di perito elettronico. Ora voglio capire che cos’è la coscienza». Una sfida, in un momento in cui l’intelligenza artificiale (IA) promette meraviglie ed evoca scenari di macchine intelligenti e autonome. Ma Faggin getta acqua sul fuoco. La domanda sull’origine della coscienza gli è sorta proprio dopo aver cercato di immettere il funzionamento imitativo delle reti neurali nel computer. Cosa fattibile a livello di software, ma resa impossibile al tempo da macchine non pronte a quella mole di dati. Ma anche macchine più veloci non possono dar conto (oltre al far di conto) dell’intelligenza della coscienza, del libero arbitrio. La nostra intelligenza, infatti, non dipende dalla velocità di calcolo, è «creativa non algoritmica. Noi capiamo i nostri processi mentali, poi li immettiamo nel pc e ci stupiamo di quanto sia intelligente. Non abbiamo capito niente di chi siamo. E coloro che attribuiscono al pc una personalità non capiscono nulla». L’idea di coscienza che Faggin propone – non contro la scienza, ma per superare gli attuali blocchi in nome della razionalità – è basata sulla fisica quantistica che non predice il futuro, ma lo lascia aperto, e anche la coscienza è in questo senso qualcosa che non muore con il corpo, ma dura, pur essendo lontana dal concetto religioso di anima. La coscienza, ha proseguito lo studioso, il libero arbitrio, l’identità «non sono fenomeni algoritmici della realtà», la quale è un fenomeno olistico, irriducibile, appunto. «Se è algoritmico non è intelligente», taglia corto Faggin. Alcuni scienziati oggi, poi, arrivano a dire che «sono gli atomi e le molecole del mio organismo a determinare cosa decido», negando il libero arbitrio. La coscienza, invece è irriducibile perché «è completamente privata e per questo può essere descritta dall’informatica quantistica che a sua volta non è clonabile, riproducibile, dunque è anch’essa privata». Perciò è irrealistico il timore che la coscienza possa essere “scaricata”, immagazzinata, e riprodotta in svariate copie. E la macchina, se pure fosse cosciente, «non sarebbe mai cosciente di essere cosciente, non avrebbe l’autocoscienza». È la vita a essere un unicum olistico, ma anche un campo di battaglia dove l’uomo è protagonista: questo l’invito finale di Faggin.