«C’è troppo caos nelle regole del mondo digitale», afferma Fadi Chehadé, origini egiziane, nato in Libano e residente in California, già presidente e direttore generale dell’Icaan, l’organismo che gestisce la rete Internet. Attualmente lavora nel campo privato. È uno dei principali consulenti Onu per il futuro del mondo digitale. «Ne stiamo discutendo con i direttori generali delle aziende più importanti del settore – dice –. Oggi non si sa bene dove andare, talvolta si incontrano delle buone intenzioni, talaltra cattive. Facebook, ad esempio, attraversa un momento assai critico, sia idealmente che organizzativamente, ma altre grandi imprese vivono momenti positivi». Planet Labs, ad esempio, il cui co-fondatore e attuale direttore generale, Will Marshall, ha visioni ampie: la sua azienda, 450 milioni di dollari di investimenti, possiede la più grande rete di satelliti che fotografano la Terra, le immagini di Google Maps sono fornite proprio da Planet Labs. Recentemente ha confidato all’amico Chehadé : «Credo che quello che facciamo, tutte le immagini della Terra che trasmettiamo (e che a breve diventeranno video, con una risoluzione incredibile di 72 centimetri), non sia qualcosa che possiamo conservare nell’ambito privato. Bisogna che non siano più solo denaro e investimenti a dettare la nostra agenda. Voglio trovare il modo di mettere tutto quello che facciamo nella public benefit sphere, prima che sia troppo tardi».
Sono i segnali di una crisi di coscienza del Web? Quale è la situazione?
«C’è un risveglio delle coscienze nel mondo digitale, anche ai più alti livelli, tra i responsabili delle maggiori imprese digitali private, che si trovano ad avere tra le mani più potere di quanto non si immaginasse, anche solo due o tre anni fa. Il numero 2 di Facebook, Elliott Schrage, che è stato licenziato dopo lo scandalo dei Cambridge Analitycs, capro espiatorio di una crisi più profonda di Facebook, pretendeva che Facebook fosse solo una piattaforma tecnologica. Quando gli ho detto che si sbagliava, perché gestiva una rete di due miliardi di esseri umani, e che quindi aveva un potere enorme, mai conosciuto nella storia dell’umanità, ha nicchiato, scartando la responsabilità di quel che accadeva sulla sua piattaforma».
Quale è lo stato interno di Facebook dopo quel colpo?
«Facebook non è finito per una sola ragione: perché ci sono molte cose buone e belle che succedono sulla sua rete. Ma sarà difficile trovare un inquadramento che gli permetta di risollevarsi dal basso livello etico in cui è caduto. Servirebbero dei leader visionari, ma non sembra sia il caso attuale. Lo staff di Fb appare “vuoto” e non riesce a capire la responsabilità umana e sociale, oltre che esistenziale, che hanno nei confronti di 2 miliardi di persone».
I social network spesso sono accusati di essere soprattutto terreno per haters e fake news.
«I social network purtroppo stanno separando le persone e dividendo società intere, creando dei giardini isolati. Non bisognerebbe mai dimenticare, invece, che la maggioranza dei legami sui social network sono positivi, anche se non fanno rumore, perché il web non può separare i buoni rapporti da quelli negativi. Pensiamo all’ideale, cristiano ma non solo, della fraternità universale: non credo che esista un’infrastruttura al mondo che possa favorire l’unità del genere umano più di Internet. È incommensurabile quello che si fa e si può ancora fare per il bene co- mune. Ma finora non ci sono stati adeguati investimenti per creare dei commun, cioè delle “cose comuni”, un termine legale che si usa per indicare quello che è a disposizione di tutti sulla Rete, gratis».
Ci sono però casi positivi in questo senso?
«Will Marshall vorrebbe ad esempio che le immagini del mondo diventassero commun. E ha già cominciato, trasmettendo ad esempio gratis al governo del Brasile, ogni giorno, le immagini satellitari dell’Amazzonia per controllare la deforestazione, e ha creato degli algoritmi per capire ogni 24 ore quello che nelle immagini è cambiato. Il governo brasiliano è il primo che sa esattamente lo stato delle deforestazioni illegali. Con la potenza di un direttore generale ha deciso di farlo, ne ha il potere. Ora si stanno creando dei metodi legali perché certi strumenti e certi dati diventino automaticamente dei commun, indipendentemente dalla volontà più o meno responsabile dei direttori generali».
La rivoluzione digitale ha sconvolto il mondo della finanza e del commercio. La dimensione transnazionale delle grandi imprese digitali sembra farsi gioco delle nazioni, dei governi, evadendo le tasse e evitando così di contribuire al bene comune. Si va verso un’economia che impone delle nuove frontiere agli Stati?
«Qualche settimana fa ero in Cina con Jack Ma, fondatore di Ali Baba, siamo i co-chairman della grande World Internet Conferenze che a Wuzhen, ogni anno, indaga sul digitale. Mi diceva che la sua società nel 2019 avrà un trilione di cifra d’affari, qualcosa di impensabile, mille miliardi di dollari. Enorme. Queste piattaforme internazionali sono ormai più potenti di quasi tutti gli Stati, e soprattutto dei capi di Stato. È emersa un’economia inedita transnazionale e una cultura aziendale transnazionale inedita, che sta cambiando i sistemi di governance del pianeta. Da 200 anni, i nostri sistemi politici ed economici sono costruiti attorno all’autorità delle nazioni: le leggi e tutti i regolamenti giuridici, così come i trattati internazionali, sono creati attorno a un sistema integrato di nazioni e di istituzioni internazionali, ma non transnazionali. Eppure ormai esiste un’infrastruttura transnazionale che di fatto, nonostante gli sforzi di Onu, Ue, Usa e Cina, e degli altri attori della politica internazionale, comincia a governare il mondo. Non credo che il sistema di governance oggi esistente possa scrivere le nuove regole necessarie per regolare questo mondo transnazionale. Secondo me, almeno per i 50 prossimi anni, non sarà possibile eliminare i sistemi di governance attualmente esistenti. Bisogna allora trovare un nuovo sistema che “aumenti” il sistema corrente senza sostituirlo. È importante perché non pochi grandi attori del digitale sostengono che si debba semplicemente sostituire il sistema esistente, che sarebbe ormai defunto. Non lo credo, sostituirlo sarebbe un’utopia e non la migliore».
Cosa offrire in cambio?
«Un sistema di governance in tre tappe: primo, il design della policy, cioè la scrittura delle regole politiche; quindi l’implementazione della stessa policy; infine l’esecuzione ( enforcement) e il controllo (adjudication) della policy. Il problema sta nel fatto che i vecchi sistemi non riescono a svolgere il primo ruolo, quello del design, perché il mondo digitale avanza molto rapidamente e perché le piattaforme internazionali sono diventate più potenti degli stessi governi. Queste piattaforme dicono: “Noi possiamo fare le nostre policy senza gli altri”. Facebook, ad esempio, voleva redigere le policy indipendentemente da tutti, anche dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali. L’opportunità che invece il nostro mondo ora ha è quello di creare un sistema per disegnare sì le nuove policy, e rapidamente, ma tutti insieme, in una grande co-governance mondiale. Bisogna creare “insieme” un sistema decisionale che possa disegnare e implementare le policy esistenti. Credo che il design possa essere fatto in modo aperto, partecipato, inclusivo, trasparente con governi, imprese e singoli operatori. Una collaborazione pubblica e civile, dunque, per disegnare la policy. Tutto ciò, però, deve essere fatto in modo volontaristico, non normativo, attraverso delle reti di partecipazione, delle reti orizzontali. Anne-Marie Slaughter ha scritto un libro meraviglioso che si intitola A New World Order (ossia “Un nuovo ordine mondiale”, ndr) e ora ha scritto The Chessboard & the Web (“La scacchiera e la Rete”; entrambi i libri sono inediti in Italiandr), sui nuovi mezzi di lavorare insieme per creare delle policy».
Niente più sistemi verticali come l’Onu attuale, allora?
«No, non bastano più. Una volta create queste policy, bisognerà metterle a disposizione di tutti perché siano applicate in modo ancora volontario. L’ex-ministro del digitale del Pakistan, Anusha Rahman, mi ha scritto che se creiamo delle policy comuni con Google e Facebook, e queste accettano di metterle in atto in modo volontario, il Pakistan è d’accordo. Ma se non lo fanno? E qui arriviamo all’inforcement. Credo che il sistema del XX secolo esistente sia ancora indispensabile: se le imprese non operano in modo aperto ed onesto dopo aver partecipato al design assieme agli altri, i governi e le istituzioni internazionali dovrebbero poter intervenire per mettere in piazza delle politiche di inforcement e di adjudication delle policy. E poi servirà un sistema di governo per rinforzare le leggi qualora non venissero applicate. Questo è il sistema che stiamo cercando di mettere in moto all’Onu. Credo che si faranno dei passi in avanti rapidamente, perché i problemi sono diventati estremamente seri. Ho sempre la speranza cristiana, ma vedo che ci sono delle decisioni concrete che sono necessarie per prendere decisioni che non sono state prese due o tre anni fa».