Nato nel 1929, Jürgen Habermas ha insegnato filosofia e sociologia a Heidelberg e Francoforte. Dal 1971 al 1983 ha diretto il Max Planck Institut. Considerato uno dei massimi rappresentanti della seconda generazione della «Scuola di Francoforte», ha preso parte a tutti i grandi dibattiti intellettuali in Germania e si è pronunciato su molti eventi socio-politici e storici, in virtù della sua responsabilità di filosofo. Europeista convinto, ha dichiarato in più sedi il suo entusiasmo per l’Europa. Nel recente
Questa Europa è in crisi (Laterza) si preoccupa vedendo l’Europa imboccare una strada «post-democratica» e «burocratica» per regolare i suoi crescenti problemi economici; mentre solo avviandosi verso più Europa e più democrazia il vecchio continente si scriverà un futuro.
Professor Habermas, come reagisce all’euroscetticismo, che si è espresso nelle urne italiane e che sembra oggi assai diffuso in Ungheria e in Francia, in Gran Bretagna, in Grecia e a Cipro?«Non in tutti questi Paesi l’euroscetticismo ha le medesime cause. Il nazionalismo e l’antisemitismo ufficiali del governo in Ungheria vanno ben oltre il livello tollerabile nell’Unione europea. La Gran Bretagna, a causa del suo stretto legame con gli Stati Uniti, si è sempre tenuta a distanza dal continente. La Grecia e Cipro formano, per altri motivi, casi particolari tra le nazioni del Sud Europa duramente toccate dalla crisi del debito. Però lei ha ragione: la crisi del debito sovrano scatenata dalla crisi bancaria ha molto rinforzato il clima di scetticismo nei confronti dell’Europa in tutti i Paesi dell’Eurozona. Persino in Germania si presenta alle elezioni un partito che spinge per l’uscita dall’Unione monetaria europea. La ragione evidente è che, da una parte, la politica di austerità specifica promossa dal governo federale tedesco pesa soprattutto sulle frange più deboli delle popolazioni e aumenta ancor di più la disuguaglianza sociale nei Paesi interessati. D’altra parte, questa politica ha solo un effetto sospensivo, non provoca un apprezzabile miglioramento della situazione. Mi sembra comunque che la ragione più profonda del populismo provenga dal fatto che i mercati finanziari reagiscono in modo diverso ai bilanci degli Stati nazionali. Così definiscono in un certo senso la sorte delle collettività, e di conseguenza nazioni o intere regioni vengono spinte a ribellarsi le une contro le altre. Tale costernazione collettiva apparente nasconde il fatto che la politica neo-liberale, che ha provocato la crisi e che finora continua a essere seguita per le scelte fondamentali, crea dei vincitori e dei perdenti in ogni nazione. Ognuna delle quali si distingue per la sua situazione sociale, e non per la lingua o l’origine etnica della sua popolazione».
Lei ha più volte denunciato il rischio che l’Europa imbocchi una strada «post-democratica» e «burocratica». La situazione attuale le lascia sperare che il suo appello avrà qualche speranza di essere accolto?«Al contrario. I piani per un ulteriore rafforzamento del potere esecutivo europeo sono già sul tavolo. Di conseguenza i diritti di intervento dei capi di governo riuniti nel Consiglio europeo e della Commissione di Bruxelles dovrebbero essere piano piano rafforzati, ma senza che ci si preoccupi nello stesso tempo del controllo democratico di tali poteri da parte del Parlamento europeo. Se la zona euro non sprofonda, credo che lo scenario più verosimile sarà il seguente: la tecnocrazia europea imporrà un brutale consolidamento dei bilanci nazionali».
Quali ragioni hanno i popoli europei per non perdere fiducia nella costruzione europea? A cosa devono aggrapparsi in questo periodo di forti turbolenze? Come possono preparare il futuro d’Europa, in quanto cittadini, dal momento che le istituzioni e i gruppi dirigenti sembrano bloccati?«I colpevoli principali di questo fallimento sono i partiti politici e i media. Essi non riescono a persuadere la gente a ricordarsi delle numerose ragioni convincenti che, oggi più che mai, giocano a favore del progetto europeo. Non penso soltanto ai vantaggi economici per tutti e all’abolizione di barbare guerre in Europa, ma soprattutto a tre ragioni recenti: il fatto che la Germania, la cui posizione per metà egemonica ricorda antiche minacce, sia indissolubilmente legata all’Europa; l’auto-affermazione culturale di un continente che sta perdendo la sua importanza economica e demografica in una società globalizzata multipolare; infine l’influenza che solo un’Europa unita può avere sull’agenda della politica mondiale. Inoltre sarebbe ancora più importante che ci fosse una prospettiva costruttiva sul futuro dell’Europa. E infine bisognerebbe anche mettere fine alla paura dei governi di fronte ai propri popoli; dovrebbero avere il coraggio di dire la verità ai loro elettori, anziché alimentare la confusione tra un’elezione e l’altra. L’alternativa alla liquidazione dell’euro e all’abbandono di questo grande progetto si chiama "più Europa". Ma "più Europa" significa pure un trasferimento ancora maggiore di sovranità a livello europeo, che non può avvenire senza la contemporanea creazione di una democrazia sovranazionale, anzitutto nel cuore d’Europa».©
«La Croix» e per l’Italia «Avvenire» (trad. Roberto Beretta)