Non esiste una definizione migliore di “esortazione apostolica” per la Evangelii gaudium di papa Francesco. Esortazione viene dal verbo latino ex-hortari, che ha il duplice significato di “indurre, incitare a fare qualcosa” ma anche quello di “consolare, rialzare” (la radice è la stessa di confortare). La Evangelii gaudium è infatti un documento che incita con forza a cambiare direzione, e lo fa con la stessa forza con cui gli apostoli si rivolgevano alle loro Chiese (pensiamo a Paolo), che usavano toni forti e duri quando necessario; ma, a imitazione dell’atteggiamento apostolico, questa esortazione mentre incita e spinge a raddrizzarci, ci conforta e ci aiuta nell’atto del rialzarci.
Papa Francesco ci ha donato un testo a un tempo forte e consolatorio, ci incita con forza a cambiare, ma tra le parole forti si sente l’odore buono del pastore che prima di ogni cosa ha a cuore il bene del gregge, soprattutto quando – come ora – teme che si stia pericolosamente avvicinando a un burrone, molto pericoloso perché preceduto da verdi pascoli che celano, dietro le foglie, scoscesi e mortali dirupi. Ne discende allora che il primo grave errore da non commettere nel leggere questa esortazione è ridurne la portata offrendone letture fintamente ireniche che accontentano tutti, spuntando le tesi più forti, normalizzandole, riducendone la portata profetica di incitamento a cambiare strada. Dire, per prendere un esempio illustre e influente, che la Evangelii gaudium va letta «attraverso lo sguardo di quel professore- vescovo-papa nato e cresciuto in Argentina» (Michael Novak, “Corriere della sera”, 12 dicembre 2013), significa voler depotenziare la portata culturale universale e generale della esortazione, e classificarla, di fatto, irrilevante. Sono invece convinto che il solo modo per onorare l’esortazione, e accoglierla come dono di bene comune, è non smorzare proprio la critica severa (e confortante per chi la capisce) alla stagione attuale del sistema capitalistico. Quale capitalismo critica il Papa? I capitalismi sono stati diversi in passato, lo sappiamo; ma sappiamo anche che l’attuale fase di sviluppo dell’economia mondiale, il capitalismo di matrice individualistica che ha posto la finanza come suo nocchiere, sta diventando l’unico capitalismo: facendo così dimenticare tutta la biodiversità culturale ed economica del XX secolo, quando i capitalismi erano invece molti e riconducibili a diverse antropologie e visioni del mondo. Quindi la critica che papa Bergoglio rivolge alla versione attuale del capitalismo individualistico e finanziario è una critica di portata generale, che tocca un’idea chiave dell’ideologia che è alla base del nostro modello di sviluppo, che si articola in due punti: la natura escludente del nostro sistema economico (n. 53), e l’idea che chiama “ricaduta favorevole” (n. 54). L’economia di mercato ha conquistato il suo statuto etico, e quindi moralmente accettata nel Medioevo da francescani e (con qualche maggiore riserva) dai domenicani e dalla comunità cristiana (sebbene con variazioni e accenti diversi passando dal mondo cattolico a quello protestante), proprio per la sua capacità di includere gli esclusi, e non solo per la creazione di ricchezza. Se, infatti, con- frontiamo l’origine dell’economia di mercato con il feudalesimo, cioè la sola alternativa storicamente disponibile, è innegabile che lo sviluppo storico dell’economia di mercato ha portato con sé l’inclusione produttiva di milioni di servi della gleba prima, di contadini poi, e delle donne da qualche decennio, che – rimasti per millenni ai margini della vita civile – sono diventati cittadini e persone libere lavorando e consumando. Lo sviluppo della libertà di mercato è stata l’altra faccia, inseparabile, dello sviluppo della democrazia, dei diritti, e di tutte le libertà. Questa è la storia. E oggi? Non dimentichiamo che il Papa scrive nel 2013, in un periodo storico in cui quella economia di mercato (se vogliamo possiamo chiamarla pure capitalismo, anche se non è necessario: basta economia di mercato) sta conoscendo una malattia grave, che ha due grandi sintomi: la deriva solitaria, infelice e consumistica degli individui («Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata», n. 2); e la finanziarizzazione dell’economia. Non possiamo dimenticare che quando la finanza speculativa prende in mano la proprietà e il controllo di banche, imprese e quindi del lavoro e delle famiglie, si hanno almeno due gravi patologie civili: la rendita domina sui profitti degli imprenditori e sui lavoratori, e le relazioni tra gli agenti assomigliano sempre più ai cosiddetti “giochi a somma zero”. Un numero sempre maggiore di transazioni finanziarie (non tutte) si configura infatti come scommessa, dove le vincite di una parte corrispondono esattamente alle perdite dell’altra (come in ogni scommessa). Quando l’economia prende questa piega “slot” – una piega oggi molto visibile, e speriamo non irreversibile – il mercato tradisce la sua natura inclusiva e non è più fondato sulla regola aurea del “mutuo vantaggio” (quello di Smith o di Genovesi). E quindi va criticato. La “ricaduta favorevole”, al di là delle esegesi e delle traduzioni linguistiche, è un pilastro dell’ideologia capitalista, secondo la quale quando sale la marea tutte le barche si sollevano, anche le più piccole: la ricchezza dei ricchi fa bene anche ai poveri, che ne raccolgono briciole che involontariamente cadono dal tavolo dei potenti. È questa una versione del capitalismo che potremmo chiamare del “ricco Epulone”, che mentre mangia lautamente lascia cadere, senza volerlo, le briciole ai cagnolini sotto il tavolo. A papa Francesco non basta che la giustizia e la cura delle povertà e delle esclusioni siano lasciate agli effetti “non intenzionali” di comportamenti intenzionalmente tesi ai soli interessi individuali, alle briciole: vuole rimettere in discussione l’intero banchetto, chi mangia e come, chi resta fuori dalla tavola e dai tavoli, le relazioni sociali che sono nascoste dietro alle persone. La sua è una legittima, e necessaria, critica a un’idea di solidarietà di mercato e di bene comune affidata principalmente agli effetti indiretti. Le virtù sociali (è la giustizia è sempre la regina delle virtù sociali) nascono dalle virtù individuali, che sono faccende molto intenzionali, le virtù di chi vede oggi i novelli Lazzari e non li lasciano sotto i tavoli, dove non hanno più neanche la compagnia dei cani (che oggi vengono finalmente trattati con crescente rispetto e dignità). La Evangelii gaudium allora è un documento che va letto all’interno della grande tradizione classica del bene comune, umanista e cristiana – da Aristotele, Tommaso e i francescani fino a Genovesi o a Toniolo – che non ha mai pensato al bene comune come a una faccenda di effetti positivi inintenzionali di azioni cercanti il proprio interesse, ma l’ha associata alle virtù private e pubbliche. Questa tradizione considera il bene comune il frutto di azioni pubbliche e civili correttive, tese a mitigare le passioni attraverso soprattutto le giuste istituzioni, e non lo vede come effetto indiretto di azioni “naturali” e spontanee degli individui – direbbero Amintore Fanfani o Federico Caffé. Non tutte le forme della ricerca dell’interesse personali sono buone, giuste, eque. L’idea di mercato che nasce da questa tradizione, della quale Francesco è interprete e continuatore creativo, è allora quella di una grande intrapresa di cooperazione intenzionale, esercizio di virtù sociali, faccenda comunitaria e personale: «Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato» (n. 204). Prendiamolo sul serio, e diamo vita a una nuova stagione di pensiero economico all’altezza dell’esortazione di Francesco.