Forse il simbolo di una convivenza ancora possibile tra albanesi e serbi è la fabbrica di Trepca, a Mitrovica: per decenni - fino al 1999, anno degli scontri e dell’intervento militare delle forze Nato - 25mila operai di entrambe le etnie «estraevano minerali e producevano batterie». Uno scenario profondamente mutato: «Oggi la fabbrica è chiusa. E nessuno ha intenzione di riaprirla. Un carico di armi e droga frutta più di cinque anni a scavare carbone e lignite. Tutti devono sparare almeno un colpo affinché non vi siano leggi, targhe, carceri o tribunali, affinché Mitrovica resti l’ultima città da guerra fredda: i russi a nord, gli americani a sud». Ben in vista, «un cartello pubblicitario che raffigura un elicottero in cima alla collina con il sole alle spalle e i militari che avanzano sotto una scritta in neretto: "Nato, dieci anni di stabilità"». Lo raccontano i giornalisti Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano nel volume
Lupi nella nebbia. Kosovo: l’Onu ostaggio di mafie e Usa, in libreria nei prossimi giorni per i tipi della Jaca Book.Un’articolata inchiesta-reportage, da leggere dopo aver ripercorso attentamente le tappe della storia recente - sintetizzate nella nota conclusiva - di un territorio dove la guerra è ufficialmente finita nel giugno ’99, ma non l’instabilità, nonostante l’amministrazione Onu e quella Ue iniziata nel 2008 con l’invio della missione internazionale Eulex, per «aiutare le istituzioni kosovare alla creazione di uno Stato di diritto». Ma per molti l’intervento esterno rappresenta una negazione della sovranità nazionale. Infatti nel febbraio 2008 il Kosovo ha dichiarato «unilateralmente la propria indipendenza, ad oggi riconosciuta da 65 Paesi» su 200, riferiscono gli autori, ricordando che nell’Unione europea «Spagna, Romania, Grecia, Slovacchia e Cipro non riconoscono la legittimità del nuovo Stato». Non l’hanno fatto neppure Cina e Russia, e il Vaticano, «che per prudenza diplomatica non si pronuncia a favore: attende che lo faccia la maggioranza delle nazioni», osserva Roberto Morozzo della Rocca, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università Roma Tre ed esperto sui Balcani, che abbiamo interpellato per un commento sulle denunce che emergono dal libro.Secondo gli autori, inoltre, la gestione internazionale di questo fazzoletto di terra più piccolo dell’Abruzzo, 2 milioni di abitanti (il 90% dei quali albanesi e musulmani), non ha portato «benessere e giustizia, ma miseria e criminalità». Perché, scrivono, «la mafia vuole la nebbia, come i lupi. Le parole di un poliziotto kosovaro sono la sintesi di un Paese dove, in nome della stabilità dei Balcani, si è legittimata una classe dirigente legata a doppio filo con la mafia». Una situazione che, tuttavia, era precedente all’amministrazione delle Nazioni Unite, anche se indubbiamente le modalità del loro intervento sono risultate fallimentari per sovvertirla. Spiega ancora Morozzo della Rocca: «Non si può arrivare in un Paese balcanico con schemi occidentali: bisogna comprendere la loro mentalità per ottenere risultati, non basta portare tanti soldi promuovendo progetti assistenzialistici che finiscono nel nulla. Occorre tener presente che quella kosovara è da secoli una società fatta di clan, con una concezione tribale che ragiona per "capi di zona": il confine con la struttura mafiosa, a base clientelare, non è lontano, con i conseguenti traffici illegali». Lo storico ricorda anche come «prima della guerra gli albanesi sono stati oppressi dai serbi e ora succede il contrario, ma entrambi non hanno sfruttato le risorse minerarie del territorio o arginato la disoccupazione dilagante, né creato infrastrutture».A Pristina si aprono caffè e ristoranti, come testimoniano Ciulla e Romano, e le loro insegne luminose abbagliano nascondendo un’economia criminale che commercia «droga, armi, organi e persone», ben nota a «magistrati, servizi segreti, militari della Kfor, la missione Nato». Eppure «il Kosovo è una frontiera dimenticata, di cui nessuno parla, o ha interesse a farlo», rimarcano gli autori. Sembra che «Milosevic e la sua feroce repressione verso i kosovari" siano stati archiviati. Come la sorte della minoranza cristiana: circa 100mila serbi ortodossi e 65mila cattolici, per lo più albanesi. A difesa di monasteri e chiese - nel recente passato ne sono stati assaliti o distrutti 150 - restano 10mila soldati del contingente Nato, provenienti da 33 Paesi: in questi mesi 5mila militari sono "emigrati" in Afghanistan, compresi 500 italiani. L’ultimo attacco ai luoghi di culto ortodossi "risale al 17 marzo 2004. In precedenza, quando a spadroneggiare nella stessa regione era l’esercito serbo, si calcola che furono danneggiate o rase al suolo 212 delle 560 moschee musulmane dell’area», riferiscono gli autori. Ma oggi gli albanesi - fa notare Morozzo della Rocca - «non hanno alcun interesse a vandalizzare e bruciare: cercano il riconoscimento internazionale del loro Stato. E meno soldati sono sufficienti a garantire la sicurezza».