«Dicevano che in America le strade erano pavimentate d’oro. Arrivato là, mi sono accorto invece che non erano pavimentate per niente. E mi hanno detto che adesso pavimentarle toccava proprio a me»... A Ellis Island, la «porta degli Stati Uniti» che oggi è diventata un museo-sacrario dell’emigrazione, sta affisso quest’amaro apologo italiano che documenta come non per tutti i nostri connazionali la
Merica sia stata l’America – o almeno con quanta santa fatica lo è poi diventata. E però la storiella dice anche un’altra verità meno nota: ovvero che ci fu una ben organizzata propaganda (dalla quale non è stata immune nemmeno la Chiesa) per attirare gli italiani oltreoceano; una pubblicità che non si faceva scrupolo di dipingere gli Usa come un irrealistico eden avvalendosi dei più moderni – per l’epoca – mezzi di comunicazione. «Perché non è vero che i siciliani emigrati erano tutti cafoni morti di fame – è la seconda cosa che Marcello Saija dice al visitatore del Museo dell’Emigrazione eoliana di Malfa, sull’isola di Salina –: per esempio dal nostro arcipelago si partiva non tanto per indigenza, bensì alla ricerca di maggior fortuna e denari grazie ai commerci». La prima cosa che invece il professor Saija, docente di Storia delle istituzioni politiche all’università di Palermo ma forse anzitutto presidente ed anima della Rete che collega i musei siciliani dell’emigrazione, ricorda a chi lo interpella in materia è una sorta di distillato della sua pluridecennale ricerca: «Non esiste una sola emigrazione, ma tante emigrazioni quanti sono i campanili o quasi. Ognuna con i suoi motivi, caratteristiche anche molto diverse, le sue destinazioni geografiche. E ognuna va compresa al di fuori degli stereotipi creati dalla storiografia (soprattutto di sinistra) che nel dopoguerra aveva bisogno di "dimostrare" le colpe di uno Stato incapace di garantire lavoro e sopravvivenza ai suoi figli, i quali avevano dovuto espatriare per sfuggire alla miseria».Prendiamo le Eolie, dunque, e in specie Salina che tra le «sette sorelle» dell’arcipelago pare essere stata storicamente la più prodiga in imprenditorialità: già dal primo Ottocento le famiglie dei «padroni» salinari si distinguevano per la capacità di mettere a frutto le abilità di navigatori, intessendo reti di trasporto commerciale in tutto il Mediterraneo, mentre chi rimaneva sulla fertile terra vulcanica dell’isola si dedicava all’agricoltura e in particolare alla produzione di altissima qualità e resa economica della malvasìa... Perché dunque abbandonare quella possibile agiatezza per andare fino in America? «Intanto perché, a causa della dovizia di abili velisti reclutati dalle grandi compagnie di navigazione transoceanica, gli eoliani conoscono il Nuovo mondo prima di altri – risponde Sajia –. E poi per fare più soldi e magari costruirsi in patria un palazzotto, come quello sontuoso che a Malfa si fece edificare Antonio Marchetti (presto soprannominato
’u miliunariu), che aveva fatto fortuna a New York commerciando il marmo di Carrara. E fu il primo ad avere la corrente elettrica a Salina!». Il professore documenta la tesi con cifre e con storie. Qui la crescita costante della flotta a vela eoliana, testimonianza di un investimento che fu assai redditizio. Lì il passaporto di un salinaro che emigra a 50 anni suonati, con tutta la famiglia, pur essendo tra i notabili dell’isola. Non era dunque gente che andasse alla ventura perché tanto non aveva nulla da perdere... «La filossera. Certo, qualcuno spiega la spinta ad andarsene con l’arrivo del parassita che in pochissimo tempo, da metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, azzerò tutte le vigne eoliane; fu davvero un cataclisma. Tuttavia, più che al minuscolo insetto, le responsabilità dell’esodo vanno attribuite a questo libretto». Saija indica in una vetrina la colorata copertina di
Dall’Italia a New York. Guida dell’Emigrante, edizione 1902: «A New York le case sono in torri alte anche 300 metri – così vi si leggeva –, e più in alto si va più ricche sono le case. I rubinetti dell’acqua sono d’oro e d’argento». «Vuoi sapere che succede appena arrivi nel porto di Nuova York? Dieci, venti persone ti chiederanno se vuoi un lavoro. Tu scegli quello che più ti piace». «Se vuoi diventare un venditore di frutta non hai bisogno di fare molta fatica; basta solo la tua forza di volontà e la tua voglia di lavorare! Appena riesci a guadagnare un po’ di soldi procurati un carretto, la mattina presto vai ai mercati generali, compra un po’ di frutta e vendila per le strade»...Ed è alquanto significativo che questa pubblicistica da paese di Cuccagna sia stampata e distribuita da due grandi compagnie navali, «La Veloce» e la «Navigazione Generale Italiana»: le due che – prima divise, poi fuse nella medesima impresa – nelle Eolie si accaparrarono grazie ai loro agenti la maggior quota di biglietti transoceanici. Il
business era così allettante che sulle sperdute isole arrivarono persino emissari di armatori stranieri, sviluppando tutto un indotto di sensali e speculatori. C’erano per esempio faccendieri che anticipavano il prezzo del viaggio, il quale sarebbe poi stato restituito «in comode rate» oltre Atlantico lavorando per un boss già prefissato; c’era chi lucrava acquistando a prezzi da svendita i beni immobili dei partenti; c’era l’assicuratore per stipulare, «a sole 10 lire», polizze che garantivano le 200 lire del biglietto nel caso si venisse respinti all’arrivo (evento tutt’altro che remoto) o che addirittura avrebbe versato un vitalizio ai congiunti in caso di affondamento del piroscafo e morte del titolare. Pure la Chiesa veniva incontro alle nuove esigenze: nel museo di Malfa sono esposti libretti di orazioni appositi per emigranti, con preghiere da recitare per ogni occasione del viaggio e della lontananza, ma anche diplomi pontifici in cui (a pagamento...) si garantiva l’indulgenza anche nel caso non si fosse riusciti a confessarsi in tempo mentre la nave colava a picco. Di fatto poi, e anche se l’America non si rivela certo quell’eden dipinto dai manualetti pubblicitari, gli eoliani faranno molto spesso fortuna. Il professor Sajia ha documentato negli Stati Uniti del primo Novecento addirittura 15 società di mutuo soccorso per emigrati del solo arcipelago, che divisi per «isola» creano e sostengono corposi processi di integrazione sociale: quelli di Lipari, quelli di Filicudi, quelli di Salina, eccetera.Nate come istituti di assistenza reciproca in caso di malattia, infortunio o morte e comunque per tenere viva la colleganza tra conterranei (era prevista l’espulsione immediata per chi non avesse partecipato ai funerali di un socio), le organizzazioni diventarono poi lobbies anche assai ricche – basta osservare appese al museo le foto di gruppo scattate durante le elegantissime feste sociali – e influenti: tanto che i presidenti Usa non disdegnavano di averle come partner in campagna elettorale (l’ultimo presidente della
Mutual Aid Society «Isola di Salina», Edoard Re, divenne segretario di Stato alla Cultura con John Kennedy e giudice federale con Johnson). Parte di tale prosperità ritornò poi in patria: per esempio, il primo generatore elettrico di Santa Marina Salina venne finanziato nel 1919 con centomila lire da un munifico emigrato americano. E lo stesso museo di Malfa ha trovato significativamente la sua prima sede nella dimora di un emigrante ritornato in patria. Ma il medesimo viaggio di ritorno purtroppo lo fece anche la mafia (no, non avvenne il contrario, come comunemente si crede), che a New York imparò i metodi estorsivi: tra gli oggetti della raccolta vi sono infatti pure gli sgrammaticati biglietti che la Mano Nera newyorkese spediva ai fruttivendoli salinari di Little Italy e di Brooklyn per offrire «protezione» in cambio del «pizzo». Cosa Nostra imparò presto.