mercoledì 23 ottobre 2013
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All’indomani dell’8 settembre 1943, dopo la firma dell’armistizio e il proclama di Badoglio, con il rovesciamento di fronte e lo sbandamento dell’esercito italiano, i tedeschi danno vita al Kunstschutz, un reparto della Wehrmacht diretto da un colonnello delle Ss, il professor Alexander Langsdorff. Il suo compito è di proteggere il patrimonio artistico della penisola dai danni collaterali provocati dall’avanzata angloamericana, un intento "nobile" che nasconde in realtà un secondo fine: la razzia sistematica delle opere inestimabili presenti sul territorio dell’ex alleato. Un rastrellamento minuzioso per condurre a Berlino, nel cuore del Terzo Reich ormai al crepuscolo, tutto ciò che poteva avere un’attinenza con la civiltà germanica, a partire dalle testimonianze artistiche del basso Medioevo. O anche per compiacere Hitler e soddisfare la brama di possesso di qualche gerarca "collezionista", tipo il feldmaresciallo Göring, l’ispiratore del Kunstschutz che già nel 1940 aveva destinato alla propria residenza privata un terzo circa delle opere depredate dal Louvre. Senza contare il valore di dipinti e sculture provenienti dalle nazioni cadute nelle mani dei nazisti, da indirizzare eventualmente al mercato clandestino per finanziare i costi di un conflitto tanto vasto. A questo programma di vera e propria spoliazione, si opposero con ogni mezzo e rischiando spesso in prima persona sia diversi soprintendenti e anonimi funzionari del ministero dell’Educazione nazionale, che cercavano di ottemperare in questo modo al loro "dovere" di tutela, sia diversi cittadini e patrioti, antifascisti o meno, con a cuore non solo la libertà e l’integrità territoriale, ma la conservazione del patrimonio artistico. Un nome spicca su tutti, quello di Rodolfo Siviero. Nato a Guardistallo, provincia di Pisa, nel 1911 e spentosi a Firenze il 26 ottobre 1983, suo è il merito di aver salvato - recuperandole una volta terminata la guerra - la maggior parte delle opere trafugate dal Kunstschutz, il quale per tale attività si avvaleva tra l’altro della competenza scientifica dei responsabili degli istituti di cultura tedesca in Italia.Siviero frequenta l’università di Firenze con lo scopo di divenire un giorno un critico d’arte; figlio di un sottufficiale dei Carabinieri comandante della stazione di Guardistallo, negli anni ’30 viene reclutato dal Servizio informazioni militare (Sim), assumendo poco più che ventenne il ruolo di agente segreto. Fascista convinto, così come in maniera altrettanto convinta aderirà dopo l’8 settembre al fronte antifascista, nel ’37 è a Berlino sotto copertura, ufficialmente per una borsa di studio in storia dell’arte, in realtà inviato dall’intelligence per recuperare notizie di prima mano sul regime nazista. Inizia la doppia vita di Siviero, esperto d’arte e spia al servizio di un’Italia sempre più ostaggio delle truppe hitleriane. Nel ’43, stabiliti i contatti con il controspionaggio alleato, si troverà a giocare una pericolosa partita proprio contro il Kunstschutz, segnando una serie di colpi magistrali. E subendo, da italiano, le azioni proditorie dei nazisti contro uomini e opere d’arte. Come la distruzione, il 30 settembre 1943, dell’Archivio storico di Napoli, dato alle fiamme dopo essere stato scoperto dalle pattuglie tedesche all’interno della villa Montesano, a trenta chilometri dal capoluogo campano. O la spoliazione capillare di Firenze, con l’invio verso Berlino di dipinti e sculture. «La vittima più illustre fu il Museo degli Uffizi, svuotato e trasportato (con rischi da brivido, su strade battute dai mitragliamenti alleati) a Campo Tures e a San Leonardo di Passiria», scrive Silvio Bertoldi nella prefazione alle memorie di Siviero L’arte e il nazismo, pubblicate da Cantini nel 1984. Lo stesso metodico saccheggio si verifica nelle altre città della penisola. Eppure Siviero, in mezzo al conflitto e all’occupazione, riuscirà a salvare molti capolavori. Il posto d’onore spetta all’Annunciazione del Beato Angelico, conservata all’epoca nel convento francescano di Montecarlo a San Giovanni Valdarno e richiesta da Göring per la sua raccolta personale. Venuto a conoscenza del desiderio del feldmaresciallo, Siviero avvertì la soprintendenza e due frati del convento fiorentino di San Francesco di piazza Savonarola, che ebbero la prontezza di nascondere la tavola poco prima dell’arrivo degli uomini del Kunstschutz. E sarà sempre lui a porre in salvo le opere della collezione di de Chirico, prelevandole dalla villa del pittore fuggito da Fiesole. La sua rete informativa gli permette di monitorare e seguire i movimenti dei nazisti, scoprendo che questi hanno trasportato da Firenze a Bolzano, nel castello di Campo Tures, in attesa di condizioni favorevoli per passare il confine, sculture in marmo, bronzo e più di duecento dipinti trafugati dagli Uffizi. È il 1944, la sconfitta si avvicina e il comando del Kunstschutz non potrà far giungere quel prezioso carico a Berlino, ritrovato in extremis e quasi intatto dagli angloamericani grazie alle indicazioni di Siviero. Che, a guerra conclusa, dirigerà l’Ufficio recuperi istituito dal governo italiano, recandosi in Germania presso gli alleati, a capo della missione diplomatica per la restituzione delle opere d’arte stipate nei depositi tedeschi. Come la Danae di Tiziano, appartenente al Museo di Capodimonte ma "regalata" nel ’44 a Göring per il suo compleanno, l’Apollo proveniente da Pompei, l’Hermes di Lisippo, il Discobolo Lancellotti, la Leda del Tintoretto.Fino all’83, anno della scomparsa, Siviero guiderà la Delegazione per le restituzioni del Ministero degli affari esteri occupandosi di furti ed esportazioni illegali. Con la tenacia che lo contraddistingue, recupererà due volte la Madonna del solletico di Masaccio: la prima nel ’47, la seconda nel ’73, dopo il furto avvenuto due anni prima a Palazzo Vecchio. Per più di trent’anni, Rodolfo Siviero sarà protagonista e spettatore privilegiato della politica nostrana. Scrive a un amico, nel giugno 1964: «Chiunque in Italia compie un’opera utile, sia per la cultura come per il popolo, deve rimetterci qualche cosa». Un’amarezza e un’impotenza di fondo, per chi non ha avuto timore di lottare, in nome dell’arte, contro la barbarie nazista.
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