Quando morì, il 31 marzo1961, cinquant’anni fa, la notte di venerdì santo, gli fu trovata indosso biancheria «rattoppata da mani poco esperte, con tutta probabilità le sue», né fu possibile trovarne di nuova per l’ultima vestizione. Morì come era vissuto, monsignor Giuseppe Maria Palatucci. Francescano, compagno di seminario di padre Massimiliano Kolbe, fondatore della prestigiosa rivista
Luce Serafica e poi vescovo di Campagna, nel Salernitano, si trovò a dover fronteggiare le richieste di aiuto di centinaia, migliaia di ebrei, assegnati negli anni al campo di internamento di San Bartolomeo, e ricevette, per questo, cospicui aiuti vaticani, la cui riferibilità, nero su bianco è ora attribuibile direttamente alla volontà di Pio XII. Una precisa direttiva del Santo Padre, che si evince già da una lettera datata 20 settembre 1940 del canonico della cattedrale, don Alberto Gibboni il quale (inviato in missione a Roma dal vescovo proprio per perorare la richiesta di aiuti già inviata da qualche giorno) viene ricevuto prima dal cardinale Domenico Tardini, sostituto della Segreteria di Stato. «Per il sussidio – scrive don Gibboni al vescovo – mi ha mandato a monsignor Montini, il quale spedirà subito a lei una somma coll’istruzione per distribuirla tra gli internati. Per l’avvenire mi ha detto che ci tratterà come Genova: ogni volta che busseremo, ci aprirà». Un nuovo documento, questo, che viene alla luce dal prezioso archivio di monsignor Palatucci, comprendente ben 1276 lettere, perorazioni varie e relativi riscontri inerenti la situazione degli ebrei a Campagna. Di ben 188 documenti consta il solo carteggio con la Segreteria di Stato. Un’opera enorme di catalogazione ancora in corso, curata da don Franco Celetta, parroco a Montella, cittadina natale del vescovo. Documenti che aprono squarci importanti sulle direttive impartite per contrastare le persecuzioni razziali. Ben 36 le lettere intercorrenti fra il vescovo e monsignor Giovan Battista Montini, con un’attenzione meticolosa, da parte di quest’ultimo, alle modalità di impiego, che lascia presupporre un vero e proprio incarico affidato al futuro Paolo VI per gestire nella Segreteria di Stato la delicatissima materia. E suona come una conferma il riferimento, nella lettera del canonico della cattedrale, ai fondi già inviati a Genova, dove è ben nota l’opera di salvataggio che promosse il cardinale Boetto. La promessa di sussidi al vescovo di Campagna si materializza nel giro di pochi giorni. Il 2 ottobre 1940 il segretario di Stato cardinale Luigi Maglione scrive: «L’Augusto Pontefice si è degnato di accogliere l’esposto e mi ha ordinato di far pervenire a Vostra Eccellenza l’importo di lire 3.000, che le trasmetto con l’unito assegno sul Banco di Roma. Sua Santità, in omaggio all’intenzione degli offerenti,
mi ha pure incaricato di FarLe noto che questo denaro è preferibilmente destinato a chi soffre per ragioni di razza». Precisazione, questa, di assoluta rilevanza storica, da ricollegare al fatto che i campi di internamento del Sud d’Italia ospitavano anche dissidenti politici. E il vescovo non faceva mai mancare, accanto al ringraziamento per i fondi pervenuti e le dettagliate informazioni sul loro utilizzo, l’aggiunta di ulteriori richieste. Il 29 novembre 1940 Montini scrive di suo pugno la lettera che pubblichiamo qui a lato. Poi, di nuovo, il primo maggio del 1941, è il giovane sostituto della Segreteria di Stato che scrive al vescovo: «Il Santo Padre,
al quale ho esposto la cosa, si è degnato destinare
allo scopo da Lei esposto la somma di lire 5.000 e affida alla carità e alla prudenza dell’Eccellenza Vostra la distribuzione di quei soccorsi che, a suo giudizio, sembrano più urgenti». Non mancano altre sette lettere intercorse con casa Savoia, per chiedere l’interessamento, su casi spinosi riguardanti singoli internati, del Principe Umberto, che aveva conosciuto nelle esercitazioni militari tenutesi sui monti dell’Irpinia, nel 1936. Nel carteggio il vescovo informa anche il Vaticano del legame operativo nell’opera di salvataggio col nipote Giovanni (commissario dell’ufficio stranieri a Fiume e poi questore reggente, fino alla deportazione a Dachau, dove morì). E proprio nel corso di una cerimonia di commemorazione e intitolazione di una strada all’eroico commissario, che si tiene nell’aprile del 1953 a Ramat Gan, in Israele, il vescovo Palatucci ricostruisce come «a un certo punto, non potendo con le mie forze aiutarli, dando denaro, vesti, e anche, alle volte, viveri, mi rivolsi al Santo Padre gloriosamente regnante, Pio XII, perché mi mandasse dei sussidi, sicché in quegli anni, io potei aiutare gli ebrei con una somma di circa centomila lire: somma a quel tempo molto rispettabile». Questa, dunque, la somma totale. I tedeschi in ritirata dopo lo sbarco a Salerno degli Alleati, nel settembre del ’43, si recarono a Campagna, ma ripresero la marcia a mani vuote: complici gli agenti e la popolazione, gli ebrei erano già tutti riparati nelle montagne. Il presidente Napolitano, nel 2006 ha assegnato la medaglia d’oro tanto all’eroico paese quanto al vescovo. Al pari dei fratelli francescani Antonio e Alfonso, monsignor Palatucci riposa a Montella, accanto all’altare del convento san Francesco a Folloni, sorto sul luogo dove il santo di Assisi riposò di ritorno dal pellegrinaggio alla Grotta di San Michele Arcangelo sul Gargano. Oggi, nel cinquantesimo della morte, il comune di Campagna ne commemora la figura alla presenza dell’arcivescovo di Salerno monsignor Luigi Moretti.