sabato 27 ottobre 2018
Dal «Discorso del re» al Vangelo di Giovanni: la riflessione di Paolo Alliata, il sacerdote che scopre la fede nei classici, anche del cinema
Unascena del film "Il discorso del re" ("The Kings Speech") del regista Tom Hooper, con Colin Firth (Ansa)

Unascena del film "Il discorso del re" ("The Kings Speech") del regista Tom Hooper, con Colin Firth (Ansa)

COMMENTA E CONDIVIDI

È del 2010 il bel film di Tom Hooper, Il discorso del re. Il re cui allude il titolo è Giorgio VI, sovrano d’Inghilterra. Ha un serio problema di balbuzie, e il film si apre sul discorso radiofonico che, in quanto duca di York (non è ancora salito al trono), deve tenere a Wembley, in un’occasione ufficiale. Esito disastroso, umiliazione cocente. La storia si snoda seguendo il rapporto di aiuto e poi di amicizia con il logoterapeuta Lionel Logue.

Siamo verso la fine del film quando Giorgio VI, ormai succeduto al padre, si ritrova a tenere alla radio l’intervento che sancisce l’ingresso della Gran Bretagna nella Seconda guerra mondiale. Lunghi formidabili minuti di ininterrotto discorso, incessanti primi piani, l’incrocio dello sguardo del sovrano con quello del terapeuta davanti a lui, che lo accompagna e lo aiuta a far emergere le parole dal viluppo di una lingua annodata. È il discorso più importante della vita del re. La sapienza del regista ci offre la forte percezione dell’intreccio tra la fierezza di un uomo che è riuscito a venire a capo del suo problema – l’umiliazione di non trovare la propria voce – e la drammaticità dei contenuti del suo messaggio, che apre anni di sanguinoso conflitto. Terminato l’intervento radiofonico, Logue si complimenta: «Soltanto qualche balbettìo ogni tanto». La risposta del re è pronta: «Ho dovuto farlo qua e là. Così erano sicuri che ero io». È il passaggio decisivo. Un re improbabile è divenuto un re inconfondibile. Il suo difetto è divenuto il suo segno distintivo: è ormai ciò che lo contraddistingue da tutti gli altri.

Si tratta di un passaggio fondamentale nella vita di ognuno: avviene quando ciò che sentiamo come un problema diventa ciò che ci identifica come unici. In un passaggio del Ramo d’oro James Frazer, il grande antropologo ed etnologo del secolo scorso, racconta di una tribù africana dove vige questa tradizione: il re, che viene eletto tra i giovani, deve avere un fisico perfetto, perché si è convinti che non appena comincerà a mostrare qualche segno di vecchiaia, la forza di tutto il popolo inizierà a declinare. Ai primi cenni di invecchiamento, o in occasione di qualche trauma evidente, il re verrà ucciso e sostituito: incarna il vigore e la salute del popolo, non c’è posto per le sue debolezze. Ebbene, racconta Frazer, a un certo punto a un re si spezza un dente. Allora raduna la tribù e dice: "Stanotte mi sono tolto un dente: io sono diverso da tutti gli altri re, voglio essere sempre riconoscibile". Quel sovrano è un furbacchione: fa in modo che il suo problema diventi una risorsa. Ci vuole una buona dose di presenza a se stessi per rendere un difetto un elemento di distinzione.

È un passaggio interiore che matura quando le nostre radici si sono fatte profonde, ed esprime solidità d’animo, senso dell’umorismo, una certa gioia di vivere. Solo chi è solido sa ridere di se stesso. Quando un re raccoglie in sé qualità di questo genere, è certo una benedizione per i sudditi.

La forza di un popolo raccolto attorno al suo re. Mia mamma era inglese: ricordo la fierezza con cui mi parlava di Giorgio VI, mentre raccontava di come si fosse risolutamente rifiutato di lasciare l’Inghilterra durante i bombardamenti tedeschi. Non aveva accettato neppure di uscire da Londra, nonostante le insistenze dei ministri. Dovrei scappare in Canada?, diceva. Ma il mio popolo è qui. Io resto qui, e anche mia moglie e le mie figlie.

È rimasto a Londra anche dopo che una bomba esplose nel cortile principale della residenza di Windsor. Un re credibile perché radicato nella vita della sua gente, di cui accetta di condividere i rischi. Un re credibile perché dimostra uno spessore morale che ispira fiducia.

È certo per questo che, in uno dei suoi oracoli più malinconici, il profeta Isaia minaccia: «Così dice il Signore: Io metterò come loro capi ragazzi, / monelli li domineranno» (Is 3,4). La sconvolgente prospettiva dell’anarchia: la drammatica mancanza di una guida credibile e affidabile. La nostalgia di una guida di robusto spessore morale. Ciò che Amleto rimpiange del padre, nel desolato dialogo con Orazio: «Era un uomo, ed è dir tutto».

Gesù rivendica davanti a Pilato che la sua autorità è morale, non politica o di altro genere: si radica nella verità, nel rapporto con il Padre dei Cieli, e non nell’esercizio della violenza o nell’abuso del potere. «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).

Agli occhi di Pilato, Gesù è un re improponibile: il magistrato romano non ci metterà molto a farsi l’idea (solo in prima battuta) di esser davanti a un innocuo personaggio un po’ matto. Niente esercito, niente corona. Ma ciò che ai tuoi occhi è un difetto – suggerisce Gesù a Pilato –, una mancanza di autorevolezza, io lo rivendico come il mio segno distintivo: io sono re, ma la mia credibilità è riconosciuta da chi ha occhi per vederla; la mia autorità riposa non sul consenso ingannevole o forzato dei sudditi, ma sul libero riconoscimento della verità da parte di ognuno: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» ( Gv 18,37).

Quando parla con qualcuno, Gesù vuole aiutarlo a radicarsi nella fiducia riguardo alla bontà della vita, alla possibilità di trovare il proprio sentiero nel mondo. Nel diritto di camminare liberamente sotto il cielo. Gesù è spesso impegnato, nei Vangeli, ad aiutare i senzavoce a trovare la loro stessa voce: lo fa fisicamente con il sordomuto («gli si sciolse il nodo alla lingua e parlava corretta-mente», Mc 7,35) e simbolicamente, per esempio, con la donna samaritana ( Gv 4,1-42).

«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi», promette Gesù ad alcuni suoi discepoli ( Gv 8,32). Liberi perché solidi, radicati sulla roccia incrollabile dei dati di fatto, e non poggiata sulle sabbie instabili delle falsità e delle astuzie ideologiche. Liberi di essere se stessi. Liberi di attraversare l’umiliazione di non avere voce, come Giorgio VI, di trovarla e di far diventare la balbuzie una risorsa. Liberi di non dover essere perfetti a tutti i costi, ma di fare delle imperfezioni il luogo del proprio cammino di crescita. Perché ognuno diventa re quando sa sedere sullo scomodo trono dei propri limiti.

Il testo pubblicato qui in anteprima è un estratto dal volume di don Paolo Alliata "Dove Dio respira di nascosto" (Ponte alle Grazie)

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: