Dopo
Fabrica (Atelier, 2009) Fabio Franzin riprende il tema della condizione operaia, non più all’interno della produzione, ma nella situazione di licenziamento. Con la raccolta
Co’ e man monche [
con le mani mozzate], (Le Voci della luna, Buccinasco) in edizione bilingue (dialetto veneto che si parla nella zona compresa fra i fiumi Livenza e Monticano e italiano) egli si conferma come una delle voci più interessanti della poesia non solo dialettale, ma di tutta quella scritta nella penisola. Il poeta lavorava come operaio alle presse nella Europan di Motta di Livenza (Tv), che produceva pannelli per mobili. Fondata circa 20 anni prima nel clima del boom economico del Nord Est, la ditta è fallita nel settembre scorso causando il licenziamento degli 84 dipendenti.Una trentina ha trovato una sistemazione diversa, mentre per gli altri è iniziato un calvario che ancora oggi non lascia prevedere esito. Purtroppo altre industrie della zona stanno seguendo identico destino. Il tema fondamentale è «la solitudine del cittadino globale» (ben raccontata da Zygmunt Bauman) segnato nella condizione economica, ma soprattutto nella personalità dalla crisi del 2009 che ha comportato il licenziamento dall’azienda per cui lavorava. È finito il miracolo economico del Nord-Est, che aveva illuso la popolazione con il miraggio di uno sviluppo illimitato. Il paesaggio stesso è completamente mutato: i capannoni ora sono
stuàdhi (spenti), tappezzati da scritte «VENDESI, FITASI CAPANONI». La fabbrica è "morta", «drento l’è restà el fèro vècio / dee machine e dee ruliere» («dentro sono rimasti la ferraglia / dei macchinari e delle ruliere»). L’abbandono è la prima sensazione provata alla notizia: il direttore e il rappresentante sindacale non sono stati in grado di offrire assistenza al gruppo di persone che nella disgrazia per la prima volta hanno trovato una stretta condivisione di problemi. Prima ognuno badava ai propri interessi: ci si scannava a vicenda, c’era chi faceva da confidente «ai caporioni», chi si sottraeva al lavoro e chi incontrava difficoltà a comprendere le direttive. Ora, «abbandonati», si appartano in un cantone per piangere. La tragedia assume dimensioni «epiche», accezione che va intesa come espressione che riguarda un’intera fascia di popolazione già precedentemente devastata da una cultura «emporiocentrica» che aveva inaridito le radici della tradizione: il denaro era diventato il feticcio da adorare. La seconda sensazione è contraddistinta da sbigottimento e poi da sfinitezza. Ognuno si chiude nella solitudine: anche gli appuntamenti al bar non riescono ad infrangerne le barriere. La situazione, che in primo momento provoca in qualcuno l’ebbrezza del tempo libero, poco alla volta mina la personalità: l’individuo si sente «inutile», «di scarto», divenuto attore non voluto di un dramma non previsto. E la tragedia si coglie nei gesti, nell’improvviso rovesciamento delle abitudini di vita, nella disillusione dei sogni, nella disperazione letta negli occhi dei figli e delle mogli, nel brusco ridimensionamento dei progetti; muta il significato dei luoghi, delle persone, delle relazioni e soprattutto di se stessi. Il disoccupato diventa l’immagine sociologica «del cittadino globale», vittima di poteri, di ragioni, di scopi a lui ignoti, dipendente, come i protagonisti dei romanzi di Kafka, da un misterioso destino «non a misura d’uomo», disperso su un pianeta diventato improvvisamente opaco. Alla condizione di «sfruttato», che pure conferiva identità, segue la condizione di «essere-per-il-nulla», di individuo privo di progettualità, di capacità di incidere sulla produzione materiale e sulla relazione sentimentale, sfiduciato, inadeguato nei doveri di uomo, di padre, di marito, di cittadino, di amico. La giornata non è scandita da un ritmo, ma da un bighellonare (il
flâneur postmoderno) tra la tivù, la passeggiatina e una puntatina al bar per conversazioni convenzionali; la libertà si trasforma in «carcere», perché la chiusura della fabbrica non rappresenta il fallimento di un’azienda, ma il fallimento di persone. La tragedia rivissuta da Franzin testimonia che in questi ultimi anni la poesia si è riappropriata del suo compito fondamentale che consiste nel parlare dell’uomo all’uomo, in lui il «novecento» appare non solo superato, ma «umiliato» (nel senso più nobile del termine) nella superba pretesa di confinare la scrittura in versi a gioco dimenticando l’esigenza di testimoniare la tragedia dell’esistenza umana.