Una illustrazione di Lucia Scuderi per la 'Favola del castello senza tempo' (Bompiani)
«Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula ». La formula magica per entrare nel mondo incantato di Gesualdo Bufalino è questa. Tre parole di musicalità immaginaria, un «Apriti sesamo » a modo suo. E la favola comincia. «Una volta un ragazzo di nome Dino entrò in un bosco nero. Era stata una farfalla a tirarselo dietro con la lusinga dei suoi colori, una farfalla quale lui non aveva mai visto». È una Acherontia atropus, una falena che sul dorso ha una macchia a forma di teschio: un nome che origina dal fiume Acheronte che conduce all’Aldilà e dal mito di Atropo. Eccolo Bufalino, don Dino per gli amici, sempre lì a “giocare” con la morte – «il più cocciuto dei fatti» – come per esorcizzarla, anche quando per la prima e unica volta si cimenta in un testo espressamente dedicato ai lettori più piccoli: la Favola del castello senza tempo, una chicca che in occasione del centenario della nascita dell’enigmatico scrittore siciliano Bompiani pubblica con una accurata introduzione di Nadia Terranova a cui si deve la riscoperta dell’opera e con le superbe illustrazioni di Lucia Scuderi.
Ad animare questo viaggio nella fantasia è una domanda che suona più o meno così: cosa c’è peggio della morte? E la risposta: il «non morire». Restare sospesi in uno stato di immobilismo, condannati all’immortalità, «da un signore invisibile che ci ha voluto eterni, per non essere solo nella sua sterile eternità», che nega «fame e sete». Nel castello senza tempo abitano «i più antichi uomini scampati al diluvio», «creati quando ancora non c’era il tempo», che «non invecchiano mai, non si corrompono mai», non conoscono «riso né lacrime», il loro «stato è di pigro appagamento, di monotona inappetenza», prigionieri dunque del tempo che lì non fa il suo dovere. «Ora può dirsi, questo, felicità? Sapessi cosa non daremmo per una spina di passione, un amore un odio, uno strazio, una malattia!». Chi può salvare allora queste anime «condannate» a una inquieta immortalità? E come? Un bambino, di nome Dino, “armato” di tre qualità: giovinezza, coraggio e innocenza, e con tre parole magiche: « Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula » (il cuneo, il melo cotogno e l’altalena, tanto per tradurre dal siciliano di Bufalino). «La favola – spiega nell’introduzione, Nadia Terranova – gli fu chiesta da Giorgio Tabanelli, regista e intellettuale, per una collana che allora curava per l’editore Cartedit, chiamata proprio “Racconti del Castello senza Tempo”, Giorgio Saviane, Mario Soldati. Tabanelli telefonò a Bufalino e lui ripose di non avere una favola nel cassetto, ma che gliel’avrebbe scritta apposta. Fu di parola, e il racconto uscì illustrato da Maria Letizia La Monica, moglie di Tabanelli, che curava il progetto grafico. Questo libro un po’ dimenticato finì quindi, insieme alle edizioni e alle traduzioni di tutti i libri di Don Gesualdo, alla Fondazione, dove mi fu mostrato da bibliotecario Giovanni Iemulo, che negli anni ha tenuto viva la memoria facendo laboratori sul testo con i bambini della provincia ragusana».
Così la Favola del castello senza tempo ora può essere narrata a tutti. Nuovamente. In quel mondo sospeso, fra la vita e la morte. Addentrarsi con Dino nel bosco e vivere la notte nel castello senza tempo prima di liberare quella anime (e pure noi) al suono del «drin drin fragoroso d’una sveglia» che al mattino fa ripartire... il tempo. Con la certezza dell’aforisma di Bufalino lasciato fra le pagine del Malpensante e che Terranova mette nell’incipit del suo testo: «I fatti sono cocciuti, la morte è il più cocciuto dei fatti». Con buona pace del “carceriere” del tempo. Un tempo tutto da vivere. Fra una notte e l’altra. Fra fiaba e realtà. Prima che arrivi Atropo. Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula.