Secondo le stime dell’Onu, circa 1,2 miliardi persone vivono in zone segnate da un’endemica scarsità d’acqua. L’area più problematica è una delle più calde anche geopoliticamente: la fascia che abbraccia il Nord Africa e il Medio Oriente. Negli Stati Uniti, un rapporto della Defense Intelligence Agency pubblicato in marzo – da prendere ovviamente con le pinze, come tutte le previsioni a lungo termine – parla di un peggioramento della situazione con un possibile punto di rottura tra domanda e offerta di acqua a livello planetario nel 2030. Se anche così non fosse, resta il fatto che un’enorme parte delle terre emerse è arido e inutilizzato dal punto di vista abitativo, agricolo e dello sviluppo umano in generale, per via della mancanza di risorse idriche. Un problema globale, ma che, a differenza di altri – come la ricerca di un’alternativa ai combustibili fossili – presenta già una soluzione ampiamente sperimentata, che potrebbe in teoria trasformare l’assetto produttivo e il futuro di molti Paesi: la dissalazione dell’acqua dei mari e degli oceani.C’è chi ci crede con sempre maggior decisione. Abengoa, la multinazionale spagnola dell’energia che ha costruito impianti per la dissalazione in Algeria, India e Cina, ha annunciato il 19 novembre che ne realizzerà uno anche a Nungua, in Ghana, il primo dell’Africa occidentale: sarà pronto fra due anni e dovrà coprire il consumo di acqua potabile di 500mila persone. Nei giorni scorsi un altro gigante delle infrastrutture industriali, la sudcoreana Doosan, ha firmato un contratto da 1,2 miliardi di dollari con l’Arabia Saudita per costruire un dissalatore a Yanbu, sul Mar Rosso. Le autorità saudite hanno detto di voler investire nei prossimi 10 anni ben 66 miliardi di dollari in questo settore. Non solo Paesi desertici o arretrati. Anche San Diego, in California, ha deciso di dare una svolta all’approvvigionamento idrico puntando sul mare: il Carlsbad Desalination Project, dopo 10 anni di studi e e di forti discussioni, dovrebbe entrare in funzione nel 2016, diventando il più grande impianto di dissalazione delle Americhe. In Australia, la francese Suez Environnement ha appena mandato e pieno regime a regime il dissalatore di Melbourne, che diventa così la sesta città ad averne adottato uno, dopo Perth, Gold Coast, Sydney e Adelaide.Questa accelerazione di piani di investimento è una spia del fatto che la barriera che finora ha impedito un ricorso massiccio ai mari per vincere la siccità, ovvero i costi per la realizzazione degli impianti e per l’energia necessaria a farli funzionare, si va via via assottigliando. Per Giorgio Micale, docente di ingegneria chimica all’Università di Palermo e membro del consiglio direttivo della European Desalination Society, «i processi di dissalazione impiegati al giorno d’oggi, al livello di produzione di grande scala industriale, sono essenzialmente due: processi di evaporazione e processi di osmosi inversa. I primi hanno bisogno di grandi quantità di energia sotto forma di calore che deve essere fornito all’impianto, quelli di osmosi inversa utilizzano delle particolari membrane semipermeabili e richiedono invece energia elettrica. Si tratta di processi che hanno raggiunto un’elevata maturità tecnologica: le configurazioni impiantistiche garantiscono ormai efficienze energetiche molto alte, tanto da risultare prossimi ai limiti imposti dalla termodinamica».Tra i moderni impianti con tecnologia ad osmosi inversa, per Micale va segnalato innanzitutto quello di Ashkelon in Israele: «È in grado di fornire circa il 15% del fabbisogno del settore domestico nazionale con una produzione di 100 milioni di metri cubi all’anno e consumi energetici inferiori a 3.9 kWh/m3. Poi, sempre in Israele, quello di Hadera, 125 milioni di metri cubi all’anno, e l’impianto di Sorek, che nel 2013 sarà in grado di rendere disponibili 150 milioni di metri cubi. Tutti hanno costi compresi tra 0,50 e 0,60 dollari per metro cubo di acqua prodotta, che sono i più bassi al mondo per questa tipologia d’impianti». La posizione all’avanguardia di Israele, tra l’altro, non nasce dal caso. Già Ben Gurion vedeva nella possibilità di coltivare il deserto del Negev, dove si era ritirato a vivere, nel kibbutz di Sde Boker, la chiave per il futuro dello Stato ebraico. E in un famoso discorso del 1955, "L’importanza del Negev", aveva indicato proprio nell’elaborazione di tecnologie per dissalare l’acqua a basso costo e per coltivare i terreni in condizione di aridità estrema, una delle sfide su cui si sarebbe misurata «la capacità scientifica e il vigore pionieristico di Israele». Oggi l’istituto scientifico di Sde Borek, affiliato all’Università Ben Gurion di Be’er Sheva, è una delle punte più avanzate di questo sforzo.«Tra gli impianti di tipo termico – continua sempre Micale – con tecnologia Multi-Stage Flash (MSF) sono invece da ricordare negli Emirati Arabi Uniti i tre mega-impianti di Al Taweelah, Shuweihat e Jebel Ali, quest’ultimo attualmente il più grande al mondo con una capacità di produzione pari a 300 milioni di metri cubi all’anno».Per quanto riguarda il futuro, la partita si giocherà oltre che sul piano dei costi anche su quello dell’impatto ambientale, con la migliore gestione dei prodotti di scarico e il ricorso alle energie rinnovabili. «Esistono già i primi esempi in ambito di produzione decentralizzata – spiega Micale – ovvero impianti di piccola taglia installati in aree remote, come ad esempio in alcune isole minori nel mar Mediterraneo».Va in questo senso uno sviluppo della ricerca che riguarda il processo di distillazione a membrana, una recente alternativa ibrida tra le tecnologie termiche e a membrana. Per Micale «uno dei vantaggi offerti da questa tecnologia è proprio quello di prestarsi a un accoppiamento con l’energia solare o con il calore di scarto, come quello proveniente dai circuiti di raffreddamento di impianti industriali o da centrali elettriche. Nel 2010, sull’isola di Pantelleria, è stato installato il primo impianto dimostrativo di questo tipo, alimentato con calore di scarto proveniente dalla centrale elettrica dell’isola ed energia solare, nell’ambito del programma di ricerca europeo Mediras. A oggi, i costi sono ancora relativamente elevati, ma l’impegno di ricercatori e aziende lascia ben sperare».
Ma un’altra frontiera che si sta aprendo, sul versante affascinante delle nanotecnologie, in particolare del grafene, il "materiale delle meraviglie" costituito da uno strato monoatomico di atomi di carbonio disposti a esagono, la cui invenzione è valsa il Nobel per la fisica agli scienziati russi Andre Geim e Constantin Novoselov e che sta entusiasmando per la miriade di applicazioni. Quest’estate uno studio pubblicato dalla rivista Nano Letters, firmato in primis da Jeffrey Grossman, del dipartimento di Scienza dei materiali del Mit di Boston, ha illustrato la capacità di un "foglio" di grafene, usato come filtro, di separare le molecole d’acqua dagli ioni di sodio e cloruro senza un’elevata pressione dell’acqua e con un dispendio energetico minimo. Un’ulteriore spinta verso l’estrazione massiva dell’"oro blu" dagli oceani che potrebbe rivelarsi, in un futuro non troppo lontano, una rivoluzione a lungo sottovalutata.