Il 57enne cantautore romano è in tour in solo, pianoforte e voce: domani sarà sul palco del Teatro Elfo Puccini di Milano - / Mark Angels
Da Credo a Ego a Zoo. Dal 2018 a oggi, album dopo album, di titolo in titolo, Vincenzo Incenzo ha proceduto per sottrazione di sillabe e di suoni, aumentando però in modo inversamente proporzionale il grado d’indignazione e di denuncia degli italici mali. Laddove lo Zoo siamo ovviamente tutti noi, chiusi nelle nostre gabbie sempre meno dorate e più virali, tra nuovi mortiferi virus per il corpo e per l’anima. Un disco necessario, Zoo, di uno degli autori più acuti e puntuali del nostro panorama musicale. Bravo ad affondare il colpo nel ventre molle di un Paese, anzi di un globalizzato tempo universale, in cui la comunicazione di massa sta sempre più ammorbando le reflue acque della convivenza civile, con i giovani “termometri” di un cronico disorientamento tra futuro che non s’intravvede e un presente che è ostaggio di emergenza climatica, crisi sociale, turbe da pandemia e belliche distruzioni.
È tra questa umanità sospesa che il 57enne Incenzo (autore in oltre trent’anni di carriera di diversi musical e di canzoni per i più grandi nomi della musica italiana, da Renato Zero a Armando Trovajoli, da Lucio Dalla ad Antonello Venditti e poi Sergio Endrigo, Pfm, Zarrillo, Califano, Ornella Vanoni e tanti altri) prova ora ad affacciarsi armato di un pianoforte e della sua voce per raccontare e scuotere questo ineffabile Zoo da salvare. Incenzo sarà domani a Venezia a Palazzo Ca’ Sagredo, il 3 giugno all’Elfo Puccini di Milano, il 5 al Museo diocesano di Napoli e l’11 a Castel Fusano, per poi portare le sue nuove canzoni e vecchi successi come L’elefante e la farfalla e Cinque giorni (scritte per Zarrillo) e la dalliana Rispondimiin tour in Sud America.
«Solo pianoforte e voce, un modo per ribadire con l’immediatezza di suono e parola l’essenza stessa del disco – spiega Incenzo –. E poi in direzione ostinata e contraria, continuando a credere nel valore del supporto, ho pubblicato il cd in uno speciale formato più grande, elegante e curato. Un vestito della festa, un po’ come se fosse l’ultima volta... Mi piace l’idea che si possano leggere i testi e i nomi dei collaboratori ( Zoo è prodotto da Jurij Ricotti, ndr). La musica digitale è nemica della parte letteraria di una canzone. Dalla fisicità del disco si è passati alla cosiddetta musica liquida e il rischio è che il prossimo stato sia quello gassoso, con tanti saluti all’aspetto artistico della musica».
La tua rivoluzione è il brano che apre l’album: a quale ribellione esorta?
A quella personale, è l’unica possibile. Soprattutto in un contesto sociale come l’attuale l’unica soluzione è cercare di elevarsi individualmente. La tua rivoluzione evoca un tentativo di salvezza estrema nella difesa a oltranza di ciò in cui si crede e per cui si vive. Questo atteggiamento ci mantiene in uno stato di veglia. Il verso “Se ti calpesteranno vanne fiero, che l’erba calpestata è già un sentiero” sottolinea l’idea che il riscatto possa sempre partire dal fondo.
I primi singoli dell’album sono stati Pornocrazia e Ciao Repubblica...
Brani accomunati dalla denuncia di una crescente assenza di dialogo, del senso dell’incontro, dell’autentica relazione. È difficile trovare l’entusiasmo e autoalimentarsi dal momento che manca la sponda, è una comunicazione interrotta in partenza. Nell’era della comunicazione manca il vero presupposto, la relazione di anime. Quelle di chi ha edificato questo Paese con il sudore nei campi. Ma in Ciao Repubblica, “ferita e non ancora caduta”, alla fine anche “queste ombre mi sembrano persone”.
E la canzone si fa grido che diventa opinione?
Sì, come dico rappando in Pornocrazia. Siamo in un mondo sottosopra, stravolto da una comunicazione schizofrenica in cui potrebbe essere che “il prossimo pontefice lo sceglieranno gli atei”. Una paradossale provocazione, certo. Ma nell’era dei social tutto diventa verosimile e inverosimile nello stesso tempo. E le tragedie smettono di essere percepite come tali. Come con la guerra in Ucraina: certi dibattiti in tv sembrano surreali. C’è una nuova definizione dell’idea di verità, parola confusa con il concetto di utile, per cui quello che è utile viene spacciato per vero.
Così ha intitolato un brano Non è vero...
In questa canzone proclamo la forza dell’intelligenza e del ragionamento personale. Per questo motivo bisogna ripartire dal confronto. Ma non quelli di certi dibattiti “democratici” che si vedono in televisione costruiti ad arte, con una vera e propria sceneggiatura. Sono sì rappresentati due schieramenti contrapposti, ma c’è una regia che di fatto non lascia al telespettatore la possibilità di una serena interpretazione dei fatti. È un perverso meccanismo in cui non è contemplata la responsabilità. Il problema è che la gente non sceglie più perché questo richiede impegno e alla fine si preferisce delegare. Ma questo credo sia in parte dovuto anche alla tecnologia con tutti gli automatismi che induce nelle persone. Autentica dipendenza. Chissà cosa succederebbe se chiudessero Facebook e tutti i social...
Se l’è immaginato?
La gente si ribellerebbe, si sentirebbe privata di qualcosa che avverte ormai come fondamentale ma che in sostanza non appartiene: un vuoto che si riempirebbe di nulla. Avverto che si continua ad avere un atteggiamento di sopravvivenza, come se ci fosse un’eterna pandemia. La tua rivoluzione in fondo detta la linea del disco perché è una canzone di grande speranza. Così come a chiuderlo ho voluto Altre emozioni, scritta con Sergio Endrigo. È in qualche modo una canzone anche politica, ma soprattutto lascia aperto l’orizzonte, laddove si parla di nuove emozioni che dovranno arrivare.
Però sono soprattutto le denunce a pesare in questo disco, come nel brano sull’usura.
Nel tentativo di passare dal sociale al civile ho scritto L’angelo del cash che sfugge un po’ alla grammatica della canzone e denuncia un problema subdolo e strisciante di cui si parla poco ma che minaccia molte famiglie. È una tragedia che emerge soprattutto nei momenti di crisi come questo, rappresentata nel brano dall’insinuante coro che sibila la parola “cash” prima di stritolare il bisognoso. Un presunto amico, un malefico angelo che ti avvelena e ti uccide illudendoti di salvarti.
E la tragedia di chi non viene nemmeno al mondo...
In Povero tempo evoco l’immagine del cucchiaio e dell’ago rovente. Ma anche nel brano Non è vero parlo di vite abortite. È uno dei fenomeni peggiori da assorbire e ne accenno anche in una canzone d’amore come Solo al mondo, un cui verso dice: “Passarsi il sale a cena mentre passa il bilancio dei dispersi in televisione”. Mi angosciano le stragi dei non nati e il tentativo imperante di non voler guardare la tragedia di chi perde il diritto a esserci.