Paese squarciato nei fatti e nella coscienza dall’abominio della Shoah e che ospita oggi la più importante comunità ebraica d’Europa (circa 700 mila persone), la Francia conserva un legame speciale con lo Stato d’Israele, intessuto di sentimenti forti e talora paradossali. Al contempo, soprattutto negli ultimi anni, il peso demografico acquisito dalla comunità musulmana ha anch’esso contribuito ad amplificare Oltralpe l’eco di ogni contraccolpo proveniente dal Medio Oriente in guerra. Per un intellettuale francese, in un simile contesto, far dialogare nello stesso volume i temi della memoria dell’Olocausto e del conflitto israelo-palestinese rappresenta una sfida tanto stimolante quanto perigliosa, per via di tanti scogli affioranti come l’incomprensione, i muri ideologici contrapposti, le ferite sempre aperte. A pagarne le spese sono stati ad esempio anche nomi celebri come il filosofo Edgar Morin, portato di recente clamorosamente in tribunale con l’accusa di antisemitismo per un articolo sulla politica israeliana, prima di essere totalmente discolpato. «Coraggio, parliamone…», s’intitola non a caso il primo capitolo di "A un amico israeliano" (Flammarion), una sorta di pamphlet nella forma di una lettera indirizzata allo storico Elie Barnavi, già ambasciatore d’Israele a Parigi. A firmare il volume è la penna acuta e provocatrice di Régis Debray, oggi presidente onorario dell’Istituto europeo in scienze delle religioni e saggista particolarmente attento alla dimensione del sacro, ma ricordato spesso pure per i vecchi trascorsi giovanili "rivoluzionari" in Sudamerica. Negli ultimi anni, Debray ha visitato più volte Israele, traendo già spunto da questi viaggi per precedenti e personalissimi resoconti sulla situazione in Medio Oriente. Ma mai prima come in quest’ultimo libro, il tentativo di comprensione della condizione israeliana aveva chiamato in causa il crocevia fondamentale fra valori della tradizione ebraica, a cominciare da quella biblica, e sentimenti immediati legati alla drammatica attualità bellica. E questo, senza perdere di vista l’orizzonte degli sforzi diplomatici internazionali sempre in corso. Sostenendo che lo Stato d’Israele vive oggi sospeso almeno fra due identità ben distinte, Debray chiede provocatoriamente all’amico Barnavi: «Perché cercare oltre l’Atlantico la chiave dell’enigma che è sotto il vostro naso, sulla tavola del salone?». Nella tradizione biblica, dove altri si ostinano a scorgere le radici della situazione di stallo invocando talora al contempo l’intervento risolutivo di Washington, Debray cerca invece le possibili piste della coesistenza: «Le religioni, e ancor più il giudaismo, che non è un dogma ma una pratica, non sono statue intoccabili di marmo. Esse possono rimodellarsi progressivamente, in funzione delle richieste dell’epoca». L’identità ebraica è interpretata in chiave dinamica, ovvero come quella di «un popolo che s’inventa progressivamente attraverso l’immaginario e la leggenda, e non una semplice etnia che discende da un unico ceppo. Perché allora opporre un giudaismo dei valori, etereo e senza carne, a un giudaismo degli avi, realista e spesso cinico?». Traendo ispirazione dai lavori di esegesi biblica di Albert de Pury, Debray identifica nelle figure di Abramo, Giacobbe e Mosé le fibre originarie di diverso colore di una stessa storia. Questa tradizione può permettere agli israeliani di «trovare delle porte nascoste nei muri» che ancor oggi, secondo Debray, rischiano di occultare ogni orizzonte in Terra Santa. «La tragedia del Medio Oriente è che le piazze arabe sono cieche verso la Shoah, mentre le piazze ebraiche, così come le nostre, sono accecate dalla Shoah», scrive fra l’altro Debray, a cui Barnavi risponde concisamente in coda al volume. Lo storico israeliano esprime sostanzialmente accordo, ma rimprovera al saggista di non cogliere fino in fondo la dimensione psicologica di un intero Paese: «C’è di che rendere folli i miei connazionali quando si paragonano il massacro industriale delle loro famiglie e una guerra fra due nazionalismi concorrenti e armati», osserva Barnavi, che fra l’altro considera l’intervento americano come l’unica chiave diplomatica realista. Debray pare troppo frettoloso e categorico nello sviluppo di alcune conclusioni, esibendo fra l’altro una prosa elegante in cui le esigenze di stile paiono nuocere talora alla solidità del ragionamento. Ma al contempo, sono numerosi i passaggi che invitano con forza alla riflessione, compresi quelli dedicati ai diversi volti del sionismo contemporaneo o alla prospettiva di un trasferimento a Gerusalemme di sedi internazionali. Sempre feconda, poi, pare l’attenzione prestata dall’autore alla dimensione valoriale e spirituale: un apporto spesso riconosciuto come prezioso, nelle numerose reazioni che il volume ha già suscitato in Francia, persino da alcuni detrattori di Debray.