«No, non ci si abitua», dice fra Sidival Fila con un sorriso. Dalle finestre del suo studio si ha tutta Roma ai propri piedi. Il luminoso stanzone quadrato è in cima alla torre del seicentesco convento francescano di San Bonaventura al Palatino, a mezzo tra le rovine imperiali e il cielo. Qui fra Sidival, nato nel 1962 in Brasile, vocazione tardiva in cui è rifiorita dopo una lunga incubazione quella, più antica, all’arte, lavora i suoi quadri. Sono monocromi dalle tonalità cangianti oppure lini antichi. Le superfici si increspano in pieghe come calanchi, attraversate da un fitto andare e venire di fili: cuciture che sono segno e soprattutto una luce densa e trasparente che sembra respirare direttamente dal quadro: «L’opera è composta da colore e forma – spiega – nessuna si impone sull’altra, entrambe dialogano. Quando trovo una stoffa vecchia di un secolo o più, io non posso profanare quanto il tempo e la memoria vi hanno accumulato sopra. Con la stoffa industriale invece intervengo con la pittura. Il colore è profondità, energia. Stratifico colori su colori, che interagiscono tra loro. Il risultato finale è un deposito cromatico irripetibile». Le opere di Fila non sono “sacre”. Eppure è proprio la spiritualità il loro oggetto più profondo: «Nella mia ricerca non c’è nulla che rimandi in senso figurato o esplicito al religioso, ma c’è un rimando a una tensione verso il trascendente. Il mio desiderio è rendere la materia spirituale dal punto di vista percettivo, renderla fluida, fare del colore come un’energia cromatica. Sono dimensioni che rimandano alla nostra concezione di spirito: che, anche per il mondo laico, è luce, trasparenza, leggerezza». Il “modello” di Fila è Antonello da Messina: «Io voglio imprigionare la luce nel colore, come faceva Antonello. Lui non simula l’effetto della luce sui corpi e sulle cose, ma la sprigiona da dentro. La sua arte è sacra sempre: al di là del soggetto. È la concezione della materia che la rende tale. Io dico che la pittura di Antonello è ontologica, perché va al di là di ciò che rappresenta. È questo il segreto della vera opera d’arte, non la mimesi o l’ossessione della tecnica. L’arte è sempre metaforica, una forma analogica di guardare la realtà. La pittura astratta semplicemente ha messo in luce determinati aspetti già presenti, su un dettaglio amplificato».Attraverso la sua arte Fila riesce ad aprire varchi di dialogo con il mondo laico: «Questo genere di pittura fatta da un religioso – spiega – aiuta ad abbattere precomprensioni e ad avere uno sguardo diverso verso la Chiesa. Diventa occasione di un incontro più libero. Mi chiedono come la fede passi nel mio lavoro. Non è una cosa consapevole. Ma non posso negare che la mia relazione con Dio determini il mio essere. Quando lavoro non penso a come esprimere la mia fede o i valori del cristianesimo, la pace, la fratellanza… Sarebbe artificiale. Quei valori sono dati per assunti, uno esprime ciò che è. La figura del prete e dell’artista sono molto simili. Quando un prete parla non comunica quello che sta pensando ma ciò che è. Nell’arte è lo stesso. Se un sacerdote ha la pretesa di convincere gli altri attraverso i suoi ragionamenti, non passerà. Così posso decidere di un fare un quadro sulla pace con tutti i simboli che voglio, ma non parlerà della pace se non ci sarà la pace dentro».I suoi lavori fino all’8 maggio sono in mostra in Francia a Tourcoing (Lilla), a
Le Fresnoy-Studio national des arts contemporains, in dialogo con opere tra gli altri di Dan Flavin, Sol LeWitt, François Morellet, Pablo Valbuena. Così come musei e importanti collezionisti hanno iniziato a seguire il suo lavoro (i proventi delle opere sono tutti destinati al sostegno di progetti in terra di missione). «Fino a poco tempo fa ogni forma di spiritualità era abbinata alla superstizione e non interessava perché era associata alla religione consolidata, a un elemento confessionale. Oggi questa fase è superata, si è compreso il valore della spiritualità. È importante perché è il segnale di una tensione verso la trascendenza, ma spesso c’è il rischio di una strumentalizzazione e di una confusione tra la spiritualità intesa da un credente e quella di un laico». È una delle sfide principali nel definire il campo del tanto spesso invocato incontro tra fede e contemporaneità: «In molti casi l’attenzione della Chiesa verso le espressioni della modernità si è tradotta in un processo di stilizzazione, oppure di accoglienza dell’astrazione solo nella valenza decorativa e funzionale e non per le sue valenze spirituali. Lo vediamo bene nelle vetrate o nei mosaici. È più un fatto di sentirsi esteticamente adeguati ai tempi che il senso della ricerca». Ma il rischio dell’uso strumentale dell’arte moderna in chiave decorativa è indice di un problema più profondo. «È anche la fatica di essere presenti nel mondo. Per fare “arte contemporanea” non basta imitare quello che fanno gli altri: deve essere espressione di un tuo essere nel tuo tempo. Oggi si oscilla tra un annuncio inadeguato perché il linguaggio non è più contemporaneo, e un annuncio senza mediazione culturale, che è tipico dei fondamentalismi, anche cattolici. Non si può improvvisare una dimensione culturale. La Chiesa è stata estromessa, anche con violenza, dalla storia della cultura. Ma poi ha fatto proprio questo stare ai margini, e ora va a bussare alle porte chiedendo il favore di entrare. E invece dovrebbe essere protagonista: nel pensiero filosofico, nelle arti, nella musica. Deve produrre cultura, ma spesso nemmeno la consuma. Per parlare con il mondo devi innanzitutto esserci». Le opere di Sidival Fila sono state accostate allo spazialismo, ai sacchi di Burri, alle estroflessioni di Bonalumi. Il senso delle proporzioni è proprio del minimalismo e insieme classico: «Ma non sono partito da lì: mi ci sono ritrovato. Le pieghe sono già in Manzoni e la stoffa ricucita in Burri? Sì ma la poetica è radicalmente diversa. Ho realizzato opere con stoffe le cui toppe sono state cucite da suore nell’Ottocento. Sono forme a cui anche Burri ha guardato. Non mi interessa essere totalmente nuovo. Mi piace essere dentro una storia. È qualcosa che va contro il nichilismo della rottura totale, la destrutturazione di ogni tentativo di bellezza».