mercoledì 3 luglio 2013
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Con un pizzico di snobismo è stato considerato per decenni il gioco di chi voleva darsi una parvenza di erudizione e sfoggiare un sapere giudicato da molti apertamente nozionistico. Soltanto pregiudizi, ripetono oggi gli studiosi dell’italiano. Il cruciverba fa bene alla nostra lingua. Anzi, viene visto come una sorta di Bignami dell’idioma nazionale. Un manuale in pillole che aiuta ad ampliare il bagaglio personale dei vocaboli, a offrire qualche suggerimento sulla punteggiatura, a usare le figure retoriche, a riscoprire modi di dire che fanno parte del nostro patrimonio. E soprattutto a favorire l’esercizio logico della lingua, immersi come siamo nel preconcetto (stavolta giustificato) che basta parlare a spron battuto o essere in grado di buttar giù uno scritto strampalato per saper padroneggiare l’italiano. «Ben vengano allora i cruciverba», sostiene Raffaella Setti, docente di glottologia e linguistica all’Università di Firenze e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. Non è un caso che siano entrati nelle grammatiche italiane come strumenti per irrobustire le competenze linguistiche. Di fatto, una sorta di certificato di idoneità che li fa andare oltre l’idea del divertimento basato su definizioni e lemmi incasellati. «Un tocco ludico facilita la riflessione sulla lingua – sostiene Setti –. Troppo a lungo i giochi di parole sono rimasti sotto traccia, nonostante il mercato fruttuoso delle riviste per appassionati, a cominciare dalla Settimana enigmistica che continua ad avere un ampio pubblico a 81 anni dalla nascita. Negli ultimi tempi, però, si è assistito a una loro rivalutazione sia in ambito didattico, sia negli ambienti culturali. In pratica se n’è riconosciuta la validità». A proporre uno studio sul linguaggio dell’«orizzonte verticale» (secondo l’immagine coniata da Stefano Bartezzaghi) ci ha pensato Francesca Cocco, dottoranda in scienze del linguaggio all’Università di Cagliari, con il libro L’italiano dei cruciverba (Carocci, pp. 96, euro 11). «Sicuramente questi giochi contribuiscono all’arricchimento e al consolidamento del nostro vocabolario», afferma. E guai a pensare a un italiano stantio nelle griglie. «Raramente si incontrano parole desuete o arcaismi – spiega l’autrice –. Al contrario emerge un vocabolario attuale e vivace che pesca pressoché da ogni campo semantico. Si tratta di un vocabolario che trova nella possibilità di rinnovarsi un fattore indispensabili alla sua sopravvivenza». Basta sfogliare un periodico di enigmistica per rendersene conto: si va dalla «navigazione con il gps» (soluzione: satellitare) alla «conclusione liturgica» (amen), passando per «quello di polizia è una fiction» (distretto) o «la protetta dei sette nani» (Biancaneve). Aggiunge la collaboratrice della Crusca: «Negli anni Settanta sono state svecchiate prassi consolidate: ad esempio, si è persa l’abitudine di usare i verbi tronchi. Poi si è assistito all’apertura nei confronti di termini non più limitati alle 21 lettere dell’alfabeto italiano». Niente a che vedere, comunque, con l’abuso di anglismi ormai di moda nelle conversazioni o sui media. «Da questo punto di vista – sostiene Cocco – la lingua dei cruciverba gode di buona salute. In effetti le parole straniere sono ammesse, ma i cruciverbisti le inseriscono cum grano salis e i forestierismi sono disseminati in una percentuale che non infastidisce il solutore». Un po’ come dovrebbe accadere anche nella vita di tutti i giorni. Ecco, ad esempio, il «gatto della miss» cat o la «metà di two» one. La vitalità linguistica fra le caselle è giustificata. «Il giocatore si stancherebbe presto se dovesse ritrovare sempre le stesse parole». Cosa che non si può escludere. «Esistono parole-soluzione che ricorrono – sostiene l’autrice –. Questo è inevitabile: sia perché si attinge al lessico di base, sia perché non esiste una memoria collettiva delle parole già impiegate. Ma il punto non è creare la griglia inedita, con termini che non sono mai stati proposti prima. L’originalità sta nel trovare nuove definizioni per parole-soluzione già usate». Proprio le definizioni sono il cuore dei cruciverba. Le più comuni si basano su sinonimi e contrari. «Chiaro, comprensibile» (ovvio) oppure «l’antitesi di colpa» (merito) sono all’ordine del giorno. «Tutto ciò può far riaffiorare reminiscenze linguistiche che magari non mettiamo in pratica in altri modi», chiarisce Setti. Altrettanto efficaci per il nostro italiano sono le figure retoriche che si susseguono. «Il crepuscolo della vita» (vecchiaia) è un esempio di metafora; «la cerca lo sfrattato» (casa) ha la soluzione contenuta nella definizione in forma di anafora; «ha molti vasi in negozio» (fioraio) rimanda alla metonimia, il procedimento che trasferisce il significato da una parola a un’altra in base a una relazione (in questo caso «vasi» e «fiori»).«Poi i cruciverba – prosegue la docente fiorentina – permettono di trasmettere modi di dire e proverbi di cui le giovani generazioni tendono a non conoscere esattamente il significato. Sono una parte della lingua che si sta perdendo». Certo, nel puzzle di parole l’ambiguità è il punto forte. «Lo è il don anche se sta bene» (curato) o «anche se è grave non preoccupa» (accento) sono definizioni che «mettono di fronte all’interessante ambivalenza dell’italiano che è fatto di suono, forma, materiale grafico, ma anche di nozioni e saperi», dichiara Setti. E Cocco tiene a precisare: «Le definizioni di questo genere restituiscono al cruciverba quel pizzico di ermeticità di cui spesso è accusato di mancare». Persino la punteggiatura entra nel gioco. Si fa un uso attento della virgola. Il punto esclamativo incanala verso una direzione («ama il tuo come te stesso!» con soluzione "prossimo"). E soprattutto si sfruttano i puntini di sospensione, come accade nell’ironico «la... pistola del parrucchiere» (phon) o nei «colpi di... piedi» (calci). «I segni di interpunzione hanno una loro precisa funzione seppur all’interno di un contesto che non ha ampio respiro», sottolinea la docente fiorentina. E c’è chi accusa gli ideatori dei cruciverba di affidarsi a comportamenti linguistici tipici. «Dal momento che è un passatempo nato con una vocazione popolare – conclude Cocco – si basa su convenzioni che lo rendono riconoscibile, giocabile e ripetibile. Questo, lungi dall’essere un attentato alla lingua, è probabilmente quanto ne decreta il successo: il ripetersi di schemi rassicura il solutore che si sente su un terreno familiare».
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