Cesare Cremonini (foto Giovanni Gastel)
Una canzone può ancora dire tanto, e fare anche di più: Cesare Cremonini lo sa dai tempi dei Lùnapop, una delle ultime cose serie della cosiddetta musica leggera italiana, e quasi vien da scrivere che è un po’ triste che resti fra i pochi che sanno ancora scriverle, queste benedette canzoni. Poi però si nota che il nuovo album Possibili scenari è disco di platino come solo quelli dei grandi vecchi, e che il suo tour negli stadi (a giugno) è già praticamente sold-out, e allora tutto torna: paga ancora, scrivere vere canzoni. Se le canzoni somigliano a chi scrive e chi scrive vi si mette a nudo, senza maschere.
Com’è arrivato a un pezzo ricco di denunce ma intenso, vero, come Nessuno vuole essere Robin?
«La molla dello scrivere è per me passare un lungo periodo nella quotidianità e poi mettere nelle canzoni quanto non si riesce a dire, quello cui ci si vorrebbe ribellare. In quel pezzo c’è un mio bagaglio di sofferenze, incomprensioni, umiliazioni piccole e grandi; dice di quest’oggi di giudizi superficiali da social e mancanza di empatia per l’altro. Penso che un artista debba farsi carico soprattutto di dar voce a chi non ne ha, di essere alternativo al linguaggio in voga perché una totale omologazione dei modelli di racconto sarebbe pericolosa. E tanti, hanno bisogno che si racconti qualcosa d’altro rispetto a quanto si ostenta: io ci provo assumendomi la responsabilità».
L’ha fatto anche a Natale, scrivendo della necessità di accettare le nostre imperfezioni e richiamando esplicitamente Cristo come punto di riferimento. È pericoloso citare Cristo, per un artista pop?
«No, e comunque resto fedele all’educazione e alla cultura che ho, il che peraltro non significa avere paraocchi. Offro al pubblico la mia sensibilità fiducioso che sia un dovere, il mio ruolo non è far mie esigenze altrui… Io credo, in quanto sento, e lo offro con candore: non può far danno ad altri».
Ma come si mette la società in una canzone?
«Domanda da un milione… (ride) Dalla diceva che sono i silenzi della società, a scrivere queste canzoni in noi: come se la gente fosse il vero autore. Certo serve un nostro rapporto profondo con la realtà, ma razionalmente non so come si scrivono, le canzoni: so perché io le scrivo, questo sì».
Le scrive anche perché molto mondo la spaventa?
«Sì. E quanto mi spaventa di più è proprio quello che curo scrivendole. L’uomo Cesare è sempre molto legato, all’artista Cremonini…».
E che cosa la spaventa di più oggi della realtà?
«Il mutismo. La quantità di persone che non possono trovare riferimenti adatti alla propria sensibilità. Mi spaventa una società sempre raccontata in modo cinico mentre ci sono milioni di eroi del quotidiano, gente che lotta per la famiglia, per i bambini…».
Qual è dunque il dovere di un artista?
«Non è un dovere, ma un compito: farsi carico di costoro che non hanno voce, delle sensibilità senza riferimenti. Siamo in un’epoca musicale molto povera, ma forse è un terreno fertile per dire cose diverse».
Come per lei gli anni degli insuccessi post-Lùnapop?
«Be’, fu grazie a quegli scivoloni che trovai gli stimoli per lavorare a testa bassa sulla scrittura e la mia maturazione come pianista… Ora quello che propongo è il frutto di anni di sacrifici anche progettuali, scelte artistiche pensate in prospettiva e mai per il momento… Mi ha formato molto, quel trasformare le mie sconfitte in occasioni».
Suo padre, 93 anni, di recente è stato premiato a Bologna per la sua lunga attività di medico di base: come vedeva un medico le sue velleità d’artista?
«Deve sapere che fu a sedici anni che mostrai ai miei, e in modi estremi, le mie intenzioni… Ma la rinuncia alla strada pensata da loro, la laurea, fu una botta breve proprio grazie al successo dei Lùnapop. Comunque papà mi è stato d’esempio nel vivere la mia passione come lui ha vissuto la sua: con rispetto, lavoro, dedizione, amore».
Senta, ma la canzone è ancora arte vitale?
«Secondo me non morirà mai: io ci credo, alla sensibilità di chi ancora rielabora i sentimenti in musica e parole. E poi c’è bisogno di raccontare chi siamo e di cosa abbiamo bisogno: senza artisti sarebbe dura, visto che non lo fa la politica, non lo fanno le istituzioni… A noi spetta però di scrivere canzoni giuste, non sbagliate. E io ora, a trentasette anni, penso di poter dare il meglio di me nel provarci».