Questa storia sembra un romanzo. C’è chi sostiene che abbia addirittura ispirato una scena de Il dottor Zivago. Gli ingredienti ci sono tutti: un italiano trasferito nell’immensa Russia sconvolta dalla sanguinosa guerra civile che libera i suoi connazionali dai campi di concentramento e li riunisce in un Battaglione. Il suo Battaglione, un esercito privato con cui combatte i bolscevichi, mentre percorre la Transiberiana verso Oriente. Sembra un romanzo, sì. Ma non lo è. È una storia vera.
È la storia del ragioniere beneventano Andrea Compatangelo, auto nominatosi capitano del “suo” Battaglione “Savoia”. Oggi, a cento anni di distanza da quei fatti, la sua figura eccentrica e quella della sua singolare unità militare è ancora poco conosciuta. Forse perché, come dice Claudio Magris, «chi ha vissuto vicende straordinarie tende a tacere, perché pensa che, a parlarne, le si falsificherebbe ». Per comprendere la storia che andremo a raccontare, serve una contestualizzazione. «Infatti – come spiega Alberto Caminiti nel suo Gli irredenti di Siberia, 19181920 (Libero di scrivere, pagine 180, euro 15,00) –, solo in uno sterminato Stato come la Russia, completamente nel caos di una guerra civile, si rese possibile la costituzione di un esercito privato. Mentre l’Armata Rossa avanzava, oltre alle Armate bianche fedeli alla monarchia, le potenze dell’intesa finanziarono contingenti antirivoluzionari armando i prigionieri deportati nei campi di concentramento. In quel periodo, nel vuoto d’autorità esistente, era facile procurarsi divise e armi». A testimonianza di questa situazione, basta ricordare un passo de La caduta dei giganti di Ken Follett, quando Trockij dice: «Ma questo Paese è pieno di forze straniere! Si fa prima a dire chi non c’è!».
Ora, un altro punto: all’inizio della Prima guerra mondiale, nell’esercito asburgico prestavano servizio trentini, giuliani, istriani e dalmati. Soldati che furono impiegati sul fronte russo, dove 10 mila di loro finirono nei campi di concentramento. Di questa situazione fu informato lo Stato italiano, che a sua volta istituì una Missione Militare che riuscì a rintracciare migliaia di questi prigionieri di etnia italiana. Di questi, il 24 settembre 1916, 1.700 furono imbarcati per l’Italia. Altri 1.700 partirono poche settimane dopo. Poi, l’inverno artico bloccò tutto. Eppure erano pronti a salpare altri tremila prigionieri. Qui entra in scena il maggiore dei carabinieri Cosma Manera. Parla a quegli uomini stanchi e li addestra. Con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia cade nella completa anarchia, quindi, per riportarli a casa l’unica via è a Oriente. Dovranno raggiungere Vladivostock, dove potranno imbarcarsi. Ma per farlo devono percorrere 8.000 km di Transiberiana.
E così, Manera inizia a far partire, a piccoli gruppi, i suoi nuovi connazionali. Intanto, a Samara, nella regione del Volga (in mano ai cecoslovacchi della legione antirivoluzionaria), il ragioniere Andrea Compatangelo, proprietario di una ditta di import- export e collaboratore del quotidiano “Avanti!”, dopo aver aiutato i prigionieri italiani con viveri e soldi, in breve arruolò ottanta irredenti nel suo Battaglione Savoia costituito nell’agosto 1918. L’11 settembre con un «accordo per la costituzione di un battaglione italiano nell’ambito dell’Esercito della Repubblica Ceca in Russia» si stabiliva una prima fornitura di armi, denaro e vettovagliamento da parte dello stato ceco. Gli uomini del Savoia iniziano con lo svolgere attività di polizia, salvando, anche, la vita a due militari francesi. Pochi giorni e la città è assediata dai bolscevichi. E mentre, come scriveva il tenente triestino Mario Gressan (aiutante di campo di Compatangelo), «cadeva la speranza di vedere giungere in tempo le truppe alleate » rimangono gli italiani a resistere sotto il bombardamento dell’artiglieria. Quindi, come ha sottolineato Giorgio Petracchi, «il Battaglione fu la prima unità che combatté contro l’Armata Rossa».
Combattono e prima di lasciare la città riescono a rifornirsi di 250 fucili e numerose munizioni. Gressan fa saltare per aria tutto ciò che non sarebbe riuscito a portare via, per non farlo cadere in mano nemica. Anche per il Battaglione l’unica soluzione è andare a est. Un viaggio proibitivo di oltre settemila chilometri per raggiungere la concessione italiana di Tient-sin. Per farlo Compatangelo era riuscito a recuperare una vecchia locomotiva. Sul convoglio salirono anche due crocerossine. Un certo Ersciov, direttore della Banca dello stato di Samara, in una lettera al Regio Consolato italiano di Harbin, racconterà: «Il 5 ottobre, prima della caduta di Samara nelle mani bolsceviche, i vagoni contenenti i valori della Banca furono attaccati al treno del battaglione Savoia che partì in direzione della Siberia. Il battaglione rese impagabili servizi alla Direzione, facendo sì che il treno procedesse tra il massimo disordine che regnava». A una temperatura tra i quaranta e cinquanta gradi sotto zero, durante il loro viaggio, gli uomini del Savoia combattono, tra l’altro, a Ufa, Celjabinsk, Ekaterinburg.
Un ufficiale francese ricorderà: «Durante le vostre operazioni in Siberia nessuna chiesa è stata abbandonata alla profanazione ed al saccheggio. Ed anche quest’azione in difesa della religione contribuisce ad aumentare i vostri grandi meriti». Arrivati a Krasnojarsk gli vengono affidati compiti di polizia e vengono a sapere da un gestore di un circo equestre che l’Italia aveva vinto la guerra. Si festeggiò con fiumi di vodka e grappa. E sempre qui arrivò il Corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente. È il primo incontro, dopo mesi, con le autorità italiane. Gli ufficiali del Regio Esercito guardarono con diffidenza il Battaglione e ritennero Compatangelo un avventuriero esaltato. Lo invitarono a raggiungere Vladivostock e poi la concessione italiana di Tientsin, dove era arrivato il maggiore Manera, il quale aveva raccolto oltre 2.000 uomini nella Legione Redenta, costituita nel gennaio 1919. E così il Battaglione Savoia, arrivato a contare 400 uomini, confluì nella Legione Redenta, che contribuirà a proteggere la linea ferroviaria della Manciuria e rientrerà in Italia nel febbraio 1920. Compatangelo dopo aver “consegnato” i suoi uomini, con armi ed equipaggiamenti, sparì.
Dopo alcuni anni, da una lettera indirizzata al tenente Gressan, veniamo a sapere che aveva aperto un’attività, la Italchina, a Shanghai (dove morirà nel 1932). «In Siberia avevamo fatto tremare tutti. Mantenni le mie promesse, vi rimandai in Italia» scriveva al Gressan. Proseguiva poi: «Ultimamente il Ministero della Guerra mi diceva che aver riunito qualche centinaia di uomini in Siberia senza alcuna autorizzazione non mi dava diritto a niente». Infatti, a Compatangelo non è mai stato concesso alcun tipo di attestato per la sua attività. Certo, a cento anni di distanza, meriterebbe un riconoscimento ufficiale dallo Stato italiano perché, come ricorda Roberto Mendoza, autore di Andrea Compatangelo. Un capitano dimenticato (Aracne, pagine 240, euro 17), «Compatangelo fece volontariamente ciò che Manera fece per dovere istituzionale, facendo tornare in Italia (salvandoli da una probabile morte) centinaia di italiani, inserendoli in un Battaglione che è stato oggetto di riconoscimenti di stima da parte di molti militari stranieri operativi in Russia e Siberia».