Un vecchio padre invalido in preda a una penosa dissenteria. Un figlio che lo assiste e lo pulisce, una, due, tre volte, fino allo sfinimento e all’impotenza davanti a un simile inarrestabile disfacimento. Il volto di Cristo, bello come lo immaginò Antonello da Messina, è enorme dietro alla scena, immobile, imperturbabile. Quel volto che infine, nella disperazione dei protagonisti, appare deturpato dall’interno dallo stesso umore scuro che il corpo del padre non riesce a trattenere. Una scritta compare in sovrapposizione: «You are/ you are not my Shepherd», tu sei, o tu non sei, il mio Pastore. Ovvero il dubbio antico che riemerge negli uomini davanti al dolore e alla sofferenza: tu, non sei un Dio buono. Per come è andato in scena a Milano, lo spettacolo di Romeo Castellucci non mi è sembrato blasfemo. Quel grido, quel dubbio, è lo stesso di Giobbe tormentato dalle piaghe. E forse semplicemente è il pensiero che cova in mente a tanti, anche credenti, che assistano un padre nelle ore estreme, o un malato agonizzante: che bontà è, quella di un Dio che permette tanto dolore? E solo finché non si sia vista da vicino una agonia, o il compiersi di un male assoluto su un innocente, questo dubitare può apparire una bestemmia; invece è, io credo, l’estremo bussare degli uomini davanti al silenzio di Dio. Silenzio che si manifesta talvolta nelle nostre private vite, oppure nella storia, come disse Benedetto XVI a Auschwitz: («Signore, perché hai taciuto?») Ma in scena invece il silenzio, forse apparente ma per noi uomini denso, di Dio si manifesta in una stanza di una qualunque casa, con una qualunque coppia di padre e figlio. Cinquanta penosi, lenti, intollerabili minuti davanti a un vecchio che se la fa addosso, che trema e piange e si vergogna del disfarsi del suo povero corpo; e a un figlio che pazientemente conforta, cura, ma poi non regge più il destino del padre, che è alla fine poi il suo. Allora dapprima sosta impotente davanti al volto di Cristo, così lontano e indifferente; poi, quel volto appare come dalla stessa disperazione e dubbio degli uomini sfregiato in macchie che colano e ne cancellano i tratti. Giobbe, abbiamo detto, è il primo nome che si affaccia alla mente, la ribellione di Giobbe, che maledice il giorno in cui è nato. Ma anche, a guardare ancora, quello stesso corpo umiliato del vecchio non è a sua volta volto di Cristo, emblema della sofferenza dell’uomo che il Figlio si caricò addosso nell’ora della Passione? L’eco dei versi di Isaia nel pianto di quel vecchio (era «come uno pieno di sofferenze e di dolore/ come uno che fa ribrezzo a guardarlo/ che non vale niente...»). In un’ottica solo umana la sofferenza del vecchio è disperante. E la reazione di cancellare, in questa disperazione, lo stesso volto di Cristo sembra semplicemente ciò che accade oggi in tante case, quando davanti al dolore Cristo appare figura astratta e lontana. Ciò che manca alla memoria cristiana di molti, oggi, è proprio la coscienza che nelle nostre vecchiaie e agonie Cristo non resta a guardare, ma è nello stesso volto del sofferente, accanto, come a lui compenetrato. In ragione di tante polemiche, la versione originale dello spettacolo è stata emendata di una scena che era, verso quel volto di Dio, più aggressiva. Meglio, perché alcuni spettatori non abituati alla lingua del teatro ne sarebbero certo stati turbati e offesi. Nella versione milanese lo “scandalo” noi non riusciamo a vederlo; ci sono solo, opachi, opprimenti, il dolore e l’impotenza degli uomini. Che accusano Dio di restare lì a guardare. Senza saper più vedere Cristo in ciascuno che soffra; di ogni malato e morente, eternamente compagno.