Il «Martirio di sant’Erasmo» di Nicolas Poussin (Musei Vaticani)
Come accade soltanto nelle pagine di letteratura più riuscite, Il capolavoro sconosciutodi Balzac ha un’apparente semplicità, ma nasconde invece una complessità di riferimenti che fanno capire l’ampiezza di conoscenze storiche e letterarie del grande romanziere anche in ambito artistico. Nella vicenda di Frenhofer, un vecchio pittore che sta realizzando da anni il suo capolavoro segreto ritraendo la donna amata, ciò che ci interessa ora è la scelta degli interlocutori del pittore. Frenhofer riceve la visita di due colleghi: un habitué del suo studio, il pittore Pourbus, il quale arriva accompagnato da un giovane il cui nome diventerà un mito nazionale, il “Raffaello francese”, Nicolas Poussin.
Di fronte all’estasi di Frenhofer, che sollevando il velo dal quadro, vuole mostrare ai due amici la sua “belle noiseuse”, Pourbus e Poussin restano spiazzati. La tela è una informe stratificazione di colori, quasi una crosta, ma in un angolo fa vedere un brano di pittura assoluta, un piede, quello della donna che Frenhofer dice di aver raffigurato, la cui verità sfida la carne viva. I due se ne vanno mentre Frenhofer offeso dalla loro “cecità” quasi li caccia, e qui bisogna chiedersi: come mai Balzac ha fatto di Poussin uno dei protagonisti di questo racconto che è un’allegoria del rapporto fra arte e vita? È lecito pensare che Balzac abbia rifuso nel suo racconto un dibattito che occupò i teorici della pittura dal 1673 in poi e che ancora si riscontra nelle idee di Baudelaire e raggiunge poi definitiva sublimazione nell’impressionismo. È l’anno in cui Roger de Piles pubblica il suo Dialogo sul colorito. La risposta francese alle idee di Vasari sul primato del disegno. De Piles è un paladino della pittura veneta, anche se poi dice che Raffaello è più grande di Tiziano. Ma vediamo di andare per gradi. Intanto è probabile che ai più il nome di Roger de Piles dica poco o niente. In realtà, fu un personaggio importante sulla scena francese ed europea.
Era nato nel 1635, in una famiglia della piccola nobiltà di provincia, di fede cattolica. Ebbe una buona formazione, studiando persino teologia alla Sorbona, forse per seguire una storia di famiglia che annovera vari ecclesiastici. Ben presto si appassionò di arte e di pittura, ricevendo i rudimenti da un certo frate Luca, già allievo di Vouet e Le Brun, e collaboratore di Poussin. Viaggia all’estero e dimostra doti diplomatiche che attirano l’attenzione del re, il quale nel 1685 lo invia nell’Europa Centrale per tastare il polso dell’umore verso la Francia, e poi in Olanda nel 1693 col compito di favorire la pace e la deposizione di Guglielmo III dal trono inglese, ma questa volta non gli va tanto bene: le sue informazioni vengono intercettate, lo arrestano ed è tenuto ai domiciliari per quattro anni. Viaggiando aveva fatto anche da mercante per conto del re acquistando varie opere (qualcuna anche per sé, mettendo insieme una bella collezione di dipinti e disegni, dispersa poi dopo la sua morte). Nel 1699, due anni dopo essere rientrato dalla cattività olandese, viene nominato Consigliere onorario dell’Académie Royale de Peinture et de Sculpture.
È l’inizio di un decennio – morirà nel 1709 – dove esercita grande autorità sul milieu artistico, favorendo la trasformazione della didattica in Accademia. Cosa che peraltro aveva tentato già nel 1663 con l’Abrégé d’Anatomie, compendio scritto a quattro mani col genero di Vouet, François Tortebat (senza però firmarlo). Tra gli studiosi che più si sono occupati della “eloquenza del colore” nella Francia classicista dell’epoca c’è Jacqueline Lichtenstein, storica dell’arte e docente di Estetica a Parigi, la quale ha indagato ripetutamente quella che è sembrato ad alcuni il conflitto del colore col vero e il buono, in quanto il colore, per la sua capacità di sollecitare i sensi, è stato considerato un fattore di seduzione in contrasto col rigore della ragione.
Certo è che la “retorica” del colore è argomento che ha tenuto banco fra XVII e XIX secolo, fino a indurre distinzioni anche fragili fra un disegno che – con la scultura – è l’arte che più rimanda all’antico, mentre il colore – e la pittura – camminano nel solco moderno. Dibattito che deve parecchio a Roger De Piles. All’autorità della Lichtenstein si affianca ora quella di due nostre studiose – Giovanna Perini Folesani e Sandra Costa – che hanno curato con acume filologico la prima edizione italiana del Dialogo sul colorito (Olschki, pp. 250, euro 28), che è anche l’occasione per una ricostruzione a tutto tondo della figura e delle idee del De Piles sia nell’ambiente accademico parigino (verso il quale non fu affatto tenero), sia in rapporto alla trattatistica italiana, da quella cinquecentesca conVasari, Doni, Pino, Dolce, a quella secentesca con Bellori a Malvasia, da Maratta a Boschini.
Nell’Abrégé d’Anatomie, che aveva – come scrive Perini Folesani – «un evidente intento ausiliario nei confronti dell’insegnamento accademico parigino, integrando le consuete lezioni di disegno dall’esemplare e dal modello con l’analisi anatomico-funzionale del corpo umano condotta sulla riproduzione delle note incisioni anatomiche» che corredavano il De humani corporis fabrica di Vesalio, De Piles sostiene la nobiltà del disegno, e attribuisce alla pittura il ruolo che già le riconosceva Alberti di maestra e ostetrica della bellezza nascosta nelle cose. Il dialogo con la trattatistica italiana è speculare alla competizione che la Francia vuole ingaggiare coi suoi “vicini” e l’Accademia ne è la palestra. Ma, scrive De Piles con punta velenosa, gli studi degli artisti per affinare i loro talenti non sono in Francia così «di moda come presso i nostri vicini»... Il testo sull’anatomia è solo l’antipasto di quel che sarà il Dialogo sul colorito, edito all’epoca ancora in forma anonima.
Ha come protagonisti Panfilo e Damone: il primo incarna una figura colta di anziano che si fa paladino del colore (lo stesso De Piles – come pensa Perini Folesani – al quale non si adatta il ruolo neutrale del narratore fuori campo), l’altro invece prende i panni di un giovane inesperto appena rientrato da un soggiorno romano, col ruolo evidente di provocare l’apologia della pittura. La questione posta da De Piles è molto articolata, ma la si può sintetizzare così: egli ribalta la visione dei teorici rinascimentali legando in modo stretto il disegno alla scultura. L’elemento concettuale si adatta alla plastica e anzi dipende dal tatto, come ribadirà anche nel Cours de peinture (un tema rappresentato dalla celebre figura del Cieco di Gambassi), mentre la pittura è essenzialmente un’arte che si lega alla vista. Il disegno è soltanto l’elemento strumentale della pittura, non la sua sostanza intellettuale: se si desse al disegno questo ruolo si subordinerebbe la pittura alla scultura.
È il caso di Poussin, come ribadirà De Piles anche in seguito, che fa scultura col colore (perché non ha capito il senso del colorito). E lo contrappone a Rubens, che ha saputo dare alla pietra la verità della carne, mentre Poussin ha reso la carne dura come la pietra. Basterà ricordare qui, a riprova di quanto questo pensiero abbia agito sul dopo, l’idea di Baudelaire che definisce la scultura il frutto di «uno sguardo di occhi senza pupilla». Si può capire perché Baudelaire non amasse Gericault e la Zattera della Medusa, dove i corpi hanno la plastica freddezza della scultura (o dei cadaveri).
E si capisce anche perché identificasse modernità e colore in Delacroix, anche se studi recenti hanno rivelato quanto abbia contato per il pittore l’esempio degli antichi. Il caso De Piles ci aiuta a comprendere meglio non soltanto il suo tempo, ma anche i secoli che ne sono seguiti, fino alla nostra realizzazione di un mondo digitale che si regge sull’iperbole della vista e sulla concettualità, ma ha reso più incerta la nostra conoscenza “tattile”.