Epassati tre giorni dalla celebrazione del Natale e su Messina e Reggio Calabria si stese l’ombra della morte: 28 dicembre 1908, terremoto e maremoto, quasi 120.000 morti. Oggi quattro registi affrontano di nuovo quelle terribili scosse per raccontare gli italiani che furono e che sono, e noi li abbiamo incontrati. Tornano a Venezia fuori concorso con
Scossa, film a episodi, come quelli che si facevano una volta. Sono Carlo Lizzani (89 anni), Ugo Gregoretti e Citto Maselli (coetanei, 80 anni), Nino Russo (72 anni). I produttori Arturo Paglia e Isabella Cocuzza di Paco Cinematografica sono orgogliosi: «Non poteva essere altrimenti, partecipare alla Mostra accanto a personaggi che hanno scritto la storia del cinema italiano» e annunciano tre successive proiezioni in altrettanti luoghi simbolo: Messina, L’Aquila e il Quirinale.Il decano Lizzani apre con
Speranza, interpretato da Lucia Sardo e Gioacchino Cappelli, sceneggiatura cui ha partecipato Giorgio Arlorio, «grande autore della mia generazione, rappresentante di un cinema di battaglia che non esiste più – precisa Lizzani – al quale dobbiamo l’idea del nostro film».
Di cosa tratta il suo episodio?Racconto quello che è accaduto a migliaia di persone da quando esistono i terremoti: l’orrore dei sepolti vivi. Speranza, la mia protagonista femminile, è dentro una voragine profonda e angosciosa. Grida, ogni tanto c’è una qualche apparizione, come quella di uno sciacallo o del figlio, che va a chiamare aiuto. Rimane sola: la scena finale è come un delirio prima della morte in cui, con un crescendo drammatico, rievoca alcuni momenti della vita familiare.
Scossa contiene un messaggio particolare per l’Italia di oggi?Non c’è dubbio: a Messina ci sono già i germi di quelli che saranno i vizi italiani manifestatisi dopo tutti i nostri terremoti: la burocrazia e la lentezza della ricostruzione che, come per tante altre città terremotate rimaste poi senza identità, non si completò mai.
Un tema che Nino Russo declina in altro modo. Nel mio episodio,
Sembra un secolo, racconto proprio quello che è successo dopo il terremoto: davanti al capanno di Turi (Gianfranco Quero), un pescatore che ha perso la casa, quattro ragazzi vedono affiorare dal mare due corpi e li trascinano a riva. Sono quelli di due italiani che avevano cercato di emigrare in America. Man mano che passano gli anni, Turi cerca di riavere la sua nuova casa, mentre l’Italia diversamente festeggia: nel 1909, per la consegna delle prime baracche donate dalla Svizzera, ma il funzionario regio gli dice di portare pazienza; nel 1918, per la vittoria nella Grande Guerra, ma un avvocato gli dice che serve l’appoggio di un potente; nel 1938, per la conquista dell’Impero, ma un gerarca fascista lo accoglie con false promesse; nel 1948, quando vince la Democrazia Cristiana, ma anche un sacerdote lo illude. Si arriva al 2006: mentre Turi va all’anagrafe attraversando una baraccopoli di Messina – quella dove dal 1908 vivono 12.000 poveracci ancora in attesa di una casa – esplode la gioia per la vittoria dei mondiali di calcio. Turi di anni ne ha oltre 160. Com’è possibile? "La colpa è mia – spiega all’impiegato – dovevo morire prima, ma non posso farlo fino a quando non mi date una casa con quattro mura di pietra». Epilogo: quattro ragazzi corrono sulla spiaggia ai tempi nostri, vedono anche loro due cadaveri nel mare, uomini di colore. Questa volta li lasciano in acqua, sarà il vecchio Turi ad avere pietà».
Una metafora eloquente.Turi è un ostinato: chiede ai potenti di turno i suoi diritti e ottiene sempre inutili promesse. L’Italia è fatta così. Mentre i giovani dimenticano la storia e la solidarietà di cui siamo capaci. E poi la Sicilia: non è solo mafia, evitiamo lo stereotipo del siciliano che sa solo delinquere.
Su cosa si concentra, invece, Citto Maselli?Sugli
Sciacalli, il titolo del mio episodio. Sa cosa accadde a Messina? Intervennero i russi: salvarono parecchia gente, ma non capivano l’italiano. Scambiarono molti per sciacalli e li fucilarono sul posto.
Massimo Ranieri e Amanda Sandrelli sono i due protagonisti.Lui è Salvatore, un pescatore che scappa dal carcere ed è rincorso dai marinai russi. Lei è la moglie Nedda, forse è viva. Non dico come termina la storia. Ho partecipato a quest’opera collettiva perché è una straordinaria reazione alla commedia giovanilistica che va di moda oggi nel cinema italiano. Abbiamo voluto fare un film drammatico, storico e di denuncia, perché ciò che accadde a Messina assomiglia a quello che è accaduto anche dopo il Belice, l’Irpinia e L’Aquila. T
ra i titoli, quello scelto da Ugo Gregoretti appare il più lugubre: «Lungo le rive della morte».È esattamente il titolo del reportage scritto all’indomani del terremoto per la rivista "Nuova Antologia" da Giovanni Cena, letterato e giornalista, compagno di Sibilla Aleramo. Interpretato da Paolo Briguglia, lui è il nostro reporter sul luogo della tragedia.
Differenze tra il giornalismo di ieri e di oggi?No, trovo che ci sia una scuola di giornalismo italiana assolutamente rispettabile. Con questo episodio ridò l’onore a un genere che è stato importante e trascurato.