«Io sono un professore. E conosco professori che acquistano droga dai loro allievi. Qualche collega si offenderà per quello che dico. Ma questa è la realtà». Che fatti simili accadano, si può discuterne. Che diventino lo snodo centrale di
La scuola è finita – primo film italiano in concorso al Festival di Roma, che lunedì ospiterà Bruce Springsteen – spiega la forte perplessità (per usare un eufemismo) con cui la pellicola del professore Valerio Jalongo è stato accolta ieri alla rassegna romana. Come il titolo annuncia, della realtà scolastica questo film (interpretato da Valeria Golino, Vincenzo Amato, Fulvio Forti e Antonella Ponziani, dal 12 novembre nei cinema) fornisce un ritratto a dir poco desolante. Jalongo dice di parlarne per esperienza diretta: «Per tre anni ho girato un video-diario delle mie esperienze d’insegnante. Vi posso garantire che tutto quello che vedete in
La scuola è finita è vero. Il clima depresso, privo di slanci, la mancanza di gioia. E poi gli ambienti degradati, la noia e il cinismo dei ragazzi, la tacita tolleranza verso la droga, che circola liberamente in aule e cortili. Nel 68 si lottava contro l’autoritarismo dei professori. Ma oggi siamo arrivati all’eccesso opposto». Il che può anche essere condivisibile. Quel che appare discutibile, invece, è il sistema adottato dai due insegnanti del film – la Golino e Amato – proprio per recuperare il ragazzo che spaccia durante la ricreazione. Lei sceglie la via sentimentale. «Ma poiché è una donna, oltre che un’insegnante – ammette l’attrice –, finisce per provare per l’allievo un sentimento eccessivo, ambiguo». Il professore, invece, decide di avvicinarlo mettendosi al suo stesso livello. «Così si mostra amante del rock, emulo di discorsi e atteggiamenti adolescenziali – spiega l’attore –. E assieme a lui arriva perfino a drogarsi». Ma non teme, il professore Jalongo, che tutto ciò possa risultare diseducativo proprio per quei ragazzi ai quali dice di aver dedicato il film? «Io preferisco professori come questi – risponde –, che sbagliano, ma almeno in buona fede, piuttosto che quelli annoiati, demotivati, che vivono la scuola senza gioia e come se fosse una semplice routine. Almeno loro cercano di risolvere i problemi». Riuscendoci? No, almeno a giudicare dai disastrosi risultati. «Ma il film non poteva proporre un finale positivo – motiva la sceneggiatrice Francesca Marciano –, perché non sarebbe stato aderente alla realtà. La storia del nostro protagonista rappresenta quella di moltissimi, autentici studenti. E la loro realtà è questa». «Il mio film non vuole essere una denuncia sociale contro l’inadeguatezza della scuola – aggiunge il regista –, ma il racconto di un percorso interiore di liberazione. Forse alla fine, nonostante tutto, il protagonista avrà conosciuto qualcosa di sé. Forse avrà capito gli errori degli adulti. Forse tutto questo lo aiuterà a rendersi libero». Già. Forse.