giovedì 19 maggio 2016
Il ricordo di “Don Patricio”, esponente del Partito della democrazia cristiana cilena e primo presidente post regime di Pinochet. Nel suo esordio, il 12 marzo del 1990, richiamò al valore della «convivenza». Lo storico Claudio Rolle: «Grazie a lui ho capito che la vera democrazia è un percorso».
Aylwin: «Il Cile è uno solo». E fu la svolta
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«È affascinante e variegata la sfida che abbiamo di fronte: ricostruire un clima di rispetto e di fiducia nella convivenza fra i cileni». Patricio Aylwin fece una pausa impercettibile nel discorso con cui era chiamato a dischiudere la porta di una nuova era democratica per la nazione. Sapeva di dover pronunciare parole difficili. Per l’esordio, il 12 marzo 1990, il primo presidente “post-autoritario” aveva scelto lo Stadio nazionale di Santiago. Là, il regime del generale Augusto Pinochet aveva fatto incarcerare e torturare migliaia di oppositori subito dopo il golpe dell’11 settembre 1973. Nella moltitudine riunita per celebrare il momento storico, 17 anni dopo, quel giorno di fine estate – australe – c’erano anche tanti parenti e amici delle vittime, ex esuli, sopravvissuti. Aylwin era consapevole che non sarebbe stato facile per loro, ma proseguì: «Qualunque sia il loro credo, convinzioni, professione o condizione sociale. Si tratti di civili o di militari ». Si udì un mormorio. Poi qualche fischio. Il capo di Stato non cedette: «Sì compatrioti. Che si tratti di civili o di militari. Il Cile è uno solo!». «Mi ricordo perfettamente. In quel momento Aylwin ha dimostrato di essere un leader. Anzi il leader di cui la nazione aveva necessità per proseguire sulla strada, non scontata, di una democrazia stabile. Ed io mi sono definitivamente riconciliato con la sua figura», racconta ad Avvenire, Claudio Rolle, storico della Pontificia Università Cattolica del Cile. Rolle era un adolescente quando Salvador Allende fu rovesciato. Aylwin, all’epoca presidente del Partito della democrazia cristiana cilena (Pdc), aveva adottato una linea intransigente nei confronti dell’esperienza del governo democratico delle sinistre di Unidad Popular, acuendone la crisi. Nei primi tempi dopo il colpo di stato, inoltre, a differenza di altri leader del Pdc come Rodomiro Tomic e Bernardo Leighton, Aylwin sostenne i militari, in quanto “male minore” rispetto al caos di Unidad Popular. «Per me, giovane cresciuto negli anni bui del regime, era difficile comprendere – continua lo storico –. Ho apprezzato quando Aylwin, a metà degli anni Settanta, comprese e ammise pubblicamente il proprio errore di valutazione. L’ho osservato con cauto scetticismo costruire una strategia politica dei piccoli passi per mettere in scacco Pinochet e “costringerlo” a restituire il potere ai cittadini. Ho assistito con emozione, nel 1988, alla vittoria dell’opposizione democratica, da lui rappresentata, in un referendum costruito ad hoc per perpetrare la dittatura. Finalmente, quel 12 marzo, ho capito la grandezza di Aylwin: la democrazia non è un’idea astratta, è un percorso. E lui era determinato a compierlo e a farlo compiere al Paese».  Nel travaglio di Rolle si riflette quello dell’intero Cile nella tormentata fase della “transizione”, di cui Aylwin è stato la cartina di tornasole. Per questo, la sua morte, il 19 aprile scorso all’età di 97 anni, ha suscitato una così forte emozione nel Paese, ormai capace di fare i conti con la drammatica vicenda pre e post golpe. Intorno al feretro dell’ex presidente, si è riunito l’intero arco politico. Un omaggio a uno dei grandi padri della patria e della democrazia. Un credente – «social cristiano» amava definirsi, come ricorda “Il Sismografo” – che non ebbe timore di immergersi nelle lacerazioni di un Paese in equilibrio precario sui crinali della Guerra fredda, per contribuire, non senza errori e contraddizioni, all’edificazione del bene comune. «Il funerale di Aylwin, il primo di Stato dopo oltre mezzo secolo, è stata un’occasione di “re-incontro” per la nazione. Al di là delle attuali difficoltà, il Cile si è riunito per “ripassare” la grande lezione di Aylwin – dice Rolle –: la centralità del dialogo». Quest’ultima parola è stata il pilastro dell’era post-Pinochet. «Aylwin, in tempi non sospetti, ebbe l’intelligenza politica e la lungimiranza di capire che non si poteva mettere all’angolo il regime con la forza. L’insurrezione era inattuabile, specie dopo il fallito attentato a Pinochet, nel 1986. Occorreva negoziare con i militari per riportare la democrazia», dichiara Raffaele Nocera, docente di Storia dell’America Latina all’Orientale di Napoli. L’esperto ha appena pubblicato in Cile un importante saggio per il Fondo de cultura económica sui rapporti tra la Democrazia cristiana e quella cilena, dal titolo Acuerdos y desacuerdos: la Dc italiana e il Pdc chileno 1962-1973, in cui viene anche approfondita la figura di Aylwin nella difficile temperie. «Il Pdc, pur essendo fuorilegge, era l’unico partito ad avere i margini per chiudere l’era Pinochet: nessun altro aveva la forza di negoziare con i militari – sottolinea Nocera –. E, all’interno, pur essendoci vari esponenti di primo piano, Aylwin era considerato una figura di garanzia. Il compito, dunque, spettava a lui. E l’ha assolto». Conciliatore e moderato per natura e vocazione, Don Patricio – così lo chiamavano i cileni – non mancò, però, di assumere posizioni coraggiose nell’ambito dei diritti umani. Come dimostra la nomina della Commissione Rettig, poco dopo l’elezione, per far luce sulle gravi violazioni commesse dalla dittatura e la richiesta di perdono alle vittime, a nome dello Stato. Avrebbe potuto rimandarlo ad un secondo momento, data la forte pressione di Pinochet, all’epoca ancora capo delle Forze Armate. Sarebbe, però, andato contro la propria coscienza. «Una parola quest’ultima chiave per comprendere la figura di Aylwin – racconta Maria Rosaria Stabile, storica dell’Università di Roma III e profonda conoscitrice delle vicende cilene –. L’ho frequentato poiché avevamo degli amici in comune. In un’occasione, lui e la moglie, con estrema umiltà, mi hanno perfino aiutato a preparare una cena di Capodanno. Mi ha sempre colpito la sua dimensione interiore, estremamente ricca. Considerava gli incarichi più prestigiosi un servizio, non un onore. L’essenza di Aylwin si riassume in un dettaglio. Prima di assumere la carica di presidente, mi raccontò di essersi ritirato per qualche settimana per fare gli Esercizi spirituali. Aveva necessità, mi disse, di molto discernimento per governare». 
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