giovedì 5 settembre 2024
Cornegliani, Mazzone e Pini sono gli handbiker che alle Paralimpiadi hanno conquistato oro, argento e bronzo nelle prove H1, H2 e H3 nella prima giornata; oggi Mazzone ancora bronzo come Vitelaru
Fabrizio Cornegliani, medaglia d'oro nella cronometro di ciclismo su strada categoria H1

Fabrizio Cornegliani, medaglia d'oro nella cronometro di ciclismo su strada categoria H1 - Cip / Pagliaricci

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Il seme gettato da Alex Zanardi è germogliato e ha generato frutti dorati, argentati e ambrati nella foresta di Clichy-sous-bois, dove l’asfalto si colora d’azzurro per le imprese di Fabrizio Cornegliani, Luca Mazzone e Martino Pini. Li chiamano paraciclisti su strada, meglio sarebbe definirli handbiker, perché è con la forza delle braccia e delle mani che mulinano il rapporto duro tale da far volare questo gioiello della tecnologia made in Italy. Uno strumento quasi sconosciuto nello Stivale prima che le imprese dello sfortunato pilota emiliano lo sdoganassero per farlo conoscere al grande pubblico. La scuola avviata da Zanardi è diventata una fucina di medaglie, le ultime conquistate mercoledì 4 settembre nelle prove a cronometro H1, H2 e H3, dove la “H” sta appunto per handbike e le cifre segnalano il livello della disabilità: più è basso il numero maggiore è l’invalidità.

L’eroe della mattinata grigia e fredda – l’estate è ormai un miraggio nella Ville Lumière la mattina presto e la sera tardi, riapparendo solo nel pomeriggio quando il sole brilla – è Fabrizio Cornegliani, oro nella cronometro individuale H1 alla veneranda età di 55 anni, segno di come la classe anagrafica passi in secondo piano nella rassegna dei tre agitos. Alla sua seconda partecipazione paralimpica, il padovano di Miradolo Terme si è mangiato il manto stradale, coprendo i 14 chilometri e 100 metri in 34 minuti e 50 secondi, lasciandosi alle spalle il belga Maxime Hordies, rivestitosi d’argento con un distacco di 21 secondi dal vincitore, e il sudafricano Nicolas Pieter du Preez, staccato di un minuto e 17 secondi. «È una vita che inseguo questo obiettivo. Sono uno sportivo da sempre, da che ho memoria corro contro il tempo. Ho iniziato con l’atletica e finisco con il ciclismo». A Tokyo era stato secondo, adesso è riuscito a scalare quel gradino in più: «Mi sono finalmente tolto quella maledizione dell’argento che mi perseguitava da tempo. L’oro era sempre a un pizzico e non riuscivo a raggiungerlo, ma stavolta ce l’abbiamo fatta».

Un tabù sfatato per togliersi la soddisfazione più bella di una carriera paralimpica cominciata dopo un terribile incidente in palestra, durante un allenamento di arti marziali: una lesione che gli ha compromesso l’uso delle mani e delle braccia. «Il ciclismo, nel momento in cui ho cominciato a praticarlo, era uno strumento di riabilitazione, per potenziare la respirazione e gli arti superiori. L’handbike era l’unico mezzo possibile, mi consentiva di restare sdraiato e al tempo stesso di muovermi, sentire l’aria in faccia, tornare per strada come piaceva a me». Gesti semplici che gli hanno permesso di tornare ad avere un obiettivo e di poter essere protagonista nello sport. «Ho scoperto che questo gesto mi veniva bene, così ho continuato. Certo significa anche sofferenza, un elemento che fa parte di me». Un uomo meticoloso, innamorato della fatica. «Non amo perdere, soffro troppo. E, soprattutto, la cosa che meno sopporto è vedere un atleta che non lavora, non si allena, non sacrifica il cuore per la maglia che porta». E infatti pochi minuti dopo essersi messo al collo l’oro pensa già al prossimo obiettivo: «Adesso ho giusto il tempo di prendere fiato, poi fra 15 giorni avremo il Mondiale, quindi non è ancora il momento di rilassarsi».

Per imporsi Cornegliani ha viaggiato a una media di 24 chilometri orari, mentre prima di lui il portabandiera azzurro Luca Mazzone era stato argento nella categoria H2 a una media di 34 chilometri orari, appunto perché la H1 è più invalidante. Il cinquantatreenne di Terlizzi è stato battuto per 45 secondi dallo spagnolo Sergio Garrote Muñoz, ma è riuscito a superare il francese Florian Jouanny per appena 46 centesimi, confermandosi per la terza volta sul podio della specialità, dopo l’oro di Rio e l’argento di Tokyo, e acciuffando la sua settima medaglia ai Giochi. «Non ci credevo, pensavo di essere arrivato terzo. Il francese ha vent’anni di meno e giocava in casa, quindi pensavo mi battesse. Davvero tanta roba a questa età».

Un argento che a suo giudizio vale platino: «Ringrazio la mia testa e mia moglie, che mi sopporta e la dedico a tutti i ragazzi che stanno a guardarmi. Alzatevi dal divano e credeteci, iniziate uno sport e realizzerete i vostri sogni», racconta l’alfiere tricolore, che nel 1990, a 19 anni, a causa di un tuffo sbagliato nelle acque di Giovinazzo divenne tetraplegico. Un passato glorioso nel nuoto prima di diventare un pilastro della Nazionale di ciclismo e ispirare la generazione successiva, di cui fa parte il terzo mattatore azzurro della giornata contro il cronometro.

A calare il tris sull’asfalto ormai soleggiato è stato nel pomeriggio Martino Pini, bronzo nella prova H3 sul doppio giro, quindi 28 chilometri e 200 metri, coperti dal trentaduenne valtellinese a 36 km/h di media. Meglio di lui solo i francesi Bosredon e Quaile. «Ho iniziato a praticare ciclismo come pretesto per stare in mezzo alla natura. Poi, andando avanti nel tempo, ho capito che questa era diventata più di una semplice passione, ma un qualcosa che amavo fare e attorno alla quale ruotava la mia vita», racconta Pini, in carrozzina dopo un terribile incidente in moto all’età di 16 anni: «Ho capito subito che per me sarebbe stato un nuovo capitolo e grazie alla mia famiglia mi sono impegnato a dare il massimo durante la riabilitazione ». Per riconquistare l’indipendenza e la libertà è arrivata l’handbike. L’oggetto magico che schiude agli italiani le porte dell’empireo.

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