Il poeta americano Charles Simic - Foto di Helen Simic, archivio privato
Charles Simic, uno dei più importanti poeti americani e non solo della sua generazione, è morto ieri all'età di 84 anni. L’ultima email che ho ricevuto da lui era la domanda – un po’ sardonica – su chi avesse vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2022. Inutile dirgli che tifavo per lui, non si faceva illusioni: «No chance», aveva risposto con un presumibile sorriso a trentadue denti, prima dell’assegnazione, mentre era chiaro che la sua candidatura non fosse per nulla strampalata. Tutt’altro. La penultima email era, invece, il link di un articolo del "New York Times" in cui si parlava del rischio di censura negli USA. La recente situazione politica americana preoccupava parecchio il poeta che, dalla sua ridente casetta a Strafford in New Hampshire, coperta da foreste di latifoglie, continuava a scrivere liriche visionarie, telegrafiche, esilaranti.
Simic era una persona generosa e sempre disponibile. Rispondeva dal suo smartphone con giuliva ironia e sorprendente rapidità. Condivideva i suoi testi, si fidava ciecamente ed era molto felice (anzi, eccitato) di sapere che i giornali italiani gli concedevano spazio. Simic era nato a Belgrado il 9 maggio 1938. Il suo vero nome era Dušan. Non dimenticherà mai la sua infanzia slava e i bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Dopo una lunga peregrinazione tra l’Italia e Parigi («i miei agenti di viaggio erano Hitler e Stalin»), nel ’54 emigrò con la famiglia negli Stati Uniti e si stabilì a Chicago. Nel ’66 si laureò alla New York University. L’anno precedente aveva sposato Helen Dubin, l’amatissima dedicataria di molti suoi libri. Pian piano cominciò la carriera alla New Hampshire University (1973), dove diventerà professore emerito di letteratura americana e scrittura creativa.
La sua prima silloge è del ’67, What the grass says, ma è a partire dagli anni Settanta che mette a punto quel suo gusto minimale inconfondibile, definito dalla critica come una scatola cinese perfettamente costruita. La particolarità della poesia di Simic è nell’estrema concentrazione del dettato, nel potere catalizzatore delle immagini – irsute, ingombranti –, nel sentimento di inquietudine che emano certi sketch, sarcastici, feroci e misericordiosi allo stesso tempo.
I suoi maestri non appartengono soltanto alla tradizione statunitense (Emily Dickinson, Russell Edson, Bill Knott), ma sono anche i mostri sacri del surrealismo balcanico, come Vasko Popa. È da questo elettrizzante cortocircuito – il Midcult e l’eccentricità europea – che nasce una commistione di elegia soffusa, calcarei apoftegmi, petits poèmes en prose che toccano il loro vertice assoluto in Il mondo non finisce (1989), premiato con il Pulitzer e tradotto in italiano da Donzelli (a cura di Damiano Abeni, 2001). Vale la pena riportare uno dei bozzetti più riusciti: «È un negozio specializzato in porcellane antiche. Lei lo visita con un dito sulle labbra. Sssss! Si deve stare in silenzio quando ci si avvicina alle tazze del tè. Nemmeno un sospiro è concesso presso le zuccheriere. Un minuscolo granello di polvere è caduto su una salsiera sottile come un’ostia. Lei emette un “oh” dalla bocca di civetta. Ai piedi porta pantofole soffici, ben imbottite, attorno alle quali sgattaiolano i topi».
Il mondo non finisce è il capolavoro di Simic e qui, come in una mise en abyme, c’è tutta la sua poetica: gli oggetti percorsi dall’illusione pareidolitica – il critico Robert Shaw ha giustamente notato che «le cose inanimate perseguono un’oscura parodia dell’esistenza umana» –, il parallelismo con la dimensione metafisica rigettata e cercata (gli antenati sono stati per secoli sacerdoti ortodossi in un paesino della Serbia), la presenza di animali coscienziosi, lo spostamento rapido (quasi filmico) di prospettiva, il senso di smarrimento del soggetto lirico.
Hotel Insonnia (1992) e Club Midnight (2005), pubblicati da Adelphi rispettivamente con la traduzione di Andrea Molesini (2002) e Nicola Gardini (2008), aumentano l’impasto di scetticismo e trasparenza dell’espressione, ricerca angosciante e guizzo d’amore oltre la violenza, la disperazione. La satira oscura dei Balcani, la sensuale rapsodia dell’America Latina e le ardite giustapposizioni dell’avant-garde francese hanno creato uno stile unico negli Stati Uniti, intimamente “simiciano”, reduplicato anche in saggi e opere di non fiction come i taccuini di Il mostro ama il suo labirinto e la raccolta di articoli La vita delle immagini (tradotti per Adelphi da Adriana Bottini nel 2012 e nel 2017).
Le sillogi più fresche – The Lunatic (2015; a cura di Paolo Febbraro, Elliot 2017) e Avvicinati e ascolta (2019; a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Tlon 2021) – ripropongono l’oliatissimo schema di composizione in mille salse, sempre più puntute e incisive, con l’aggiunta di una maggiore dose di commiserazione, empatia, exotopia. Tenerezza. «Non capisco le persone – ha confessato in una circostanza – che non si accorgono mai della sofferenza da cui sono circondate, a cominciare dalle migliaia di senzatetto che vagano per le nostre città e dai loro cani malaticci, fedeli compagni nella povertà. Persino un verme morente o una formica che qualcuno ha calpestato merita la nostra pietà».
Simic, che ha compiuto egregiamente l’intero cursus honorum della letteratura americana – dal MacArthur Fellowship (1984-1989) all’essere nominato Poet Laureate (2007), dal Griffin Poetry Prize (2007) alla Frost Medal (2011) –, dichiarava nell’ultimissima raccolta, No Land in Sight (2022; uscirà presto nella traduzione di Abeni), di non vedere all’orizzonte nessuna terra d’approdo in vista. Ci auguriamo con affetto, con la preghiera, che adesso l’abbia finalmente trovata.