«Più chiaramente, più nettamente, con l’età, percepisco la giustezza relativa dei nostri percorsi e il ridicolo di tutto ciò che non è ottenuto con il proprio senso, la propria anima, che non è impregnato d’amore». Quando pronuncia queste parole, nel 1958, Marc Chagall ha 70 anni. Ha vissuto una rivoluzione 'rossa', due guerre mondiali e l’esilio, nel corso di un’esistenza al galoppo fra Vitebsk, il villaggio natale (nell’attuale Bielorussia) imbevuto di cultura ebraica e crocevia di truppe, la Germania, la Francia, gli Stati Uniti e poi di nuovo la Francia, dove si spegnerà quasi centenario fra i colori e profumi della Provenza. Nel 1944, ha perduto Bella, moglie e musa di tanti voli nuziali raccontati su tela, prima di risposarsi nel 1952, evento che coinciderà con una nuova e fruttuosa fase creativa, non solo pittorica. A 70 anni, dunque, è un artista celebrato in Francia e il cui nome circola già su scala planetaria. Eppure, ai suoi taccuini o al pubblico di qualche rara conferenza, offre ancora frasi di rara freschezza. Di un’essenzialità a tratti disarmante, almeno rispetto ai vapori divistici di altri celebri artisti. Dietro al mistero del fascino ipnotico che le tele di Chagall continuano ad esercitare di generazione in generazione, sembra proprio esserci il mistero dell’uomo Chagall. Il mistero di un poeta uscito ogni volta dalle sciagure novecentesche con una nuova luce nello sguardo e con la voglia di ricombinare gli stessi colori di eccezionale profondità come gli amati verde e rosso, giallo e blu per raccontare nuove storie sugli uomini. Senza dimenticare spesso il messaggio e il simbolo universali nel martirio dell’Uomo giunto fra gli uomini per redimerli. A differenza di tanti altri pennelli novecenteschi, Chagall è rimasto fino all’ultimo un narratore su tela. A Parigi, da giovane, fu amico dei cubisti e di tanti altri spiriti d’avanguardia. Ma continuerà sempre a narrare, schivando in seguito l’avvento dell’astrattismo. E la mostra parigina 'Chagall fra guerra e pace', appena inaugurata al Senato (Musée du Luxembourg) e aperta fino al 21 luglio, aiuta non poco ad accostarsi al mistero tanto dell’uomo, quanto delle sue narrazioni. Le 105 tele esposte orbitano cronologicamente attorno alle fasi perlopiù belliche che costrinsero Chagall a divenire errante ed esule, senza per questo indurlo a rinnegare le proprie radici di ebreo russo della diaspora orientale attirato al contempo dal messaggio di Cristo, reinterpretato in primo luogo come simbolo del martirio novecentesco del popolo ebreo. La mostra si apre con un piccolo
Autoritratto davanti a casa (1914) e si chiude con
La danza (1950-1952), autentico inno di grande formato alla vita e alla poesia. Ma il cuore del percorso espositivo, gradevolmente sobrio nell’apparato didascalico, sono i primi cicli di scene bibliche degli anni Trenta, accanto alle tele davvero sconvolgenti che affrontano il mistero della Crocifissione, perlopiù degli anni Quaranta, quando Chagall dovette riparare in America. Fra le opere esposte, non c’è purtroppo quella che aprì la fase di meditazione più 'cristiana' dell’artista: la
Crocifissione bianca del 1938 (conservata a Chicago), indicata da papa Francesco come proprio dipinto preferito. Ma figura in compenso l’impressionante trittico
Resistenza, Resurrezione, Liberazione (1937-1952), ottenuto rielaborando e sezionando un’unica tela monumentale originaria. Al momento della 'liberazione', in mezzo a un tripudio di musicanti, una luce d’oro trionfa su ogni turpitudine. E il volo degli sposi sui tetti prende candide sembianze di colomba. Ma quest’effusione finale, questo pneuma che molti visitatori percepiranno probabilmente come un’eco dell’apoteosi pasquale, è l’epilogo delle due scene precedenti, contrassegnate dal cupo girone rosso delle stragi novecentesche che ruotano dietro e attorno al Crocifisso. Nella mostra, sono 8 le tele dominate dalla Crocifissione, in mezzo a riferimenti al Vecchio e al Nuovo Testamento. E almeno un’opera,
Ossessione (1943), che mostra il Crocifisso caduto a terra, può quantomeno spiazzare il visitatore. Chagall la dipinse quando apprese, in America, della distruzione del proprio villaggio natale dopo l’avanzata in territorio russo degli Einsatzgruppen, le unità mobili naziste che sterminarono le comunità ebraiche dell’Est. Fra le altre tele celebri giunte a Parigi dai musei di tutta Europa, figurano pure Sogno di una notte d’estate (1939),
La guerra (1943) e
Il Campo di Marte (1954-1955). La mostra accetta il rischio di storicizzare oltre misura la parabola artistica di Chagall. Ma al contempo, opportunamente, corregge il tiro evidenziando in grande una sorta di avvertimento dello stesso pittore. Sotto il caleidoscopio dei successivi cicli pittorici e dietro l’odissea biografica, permane un unico zoccolo. Un immaginario i cui rami traggono linfa dalla Bibbia: «Fin da ragazzo, sono stato rapito dalla Bibbia. Mi è sempre parsa e mi sembra ancora la più grande fonte di poesia di ogni tempo. Da allora, ho cercato questo riflesso nella vita e nell’arte».