domenica 16 giugno 2024
Per la filosofa della religione «il dovere di pensare scaturisce dalla nostra stessa fede ed è un pensiero che si fa gratitudine e assunzione di responsabilità»
Giuseppina De Simone

Giuseppina De Simone

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Da diverse settimane “Avvenire” sta sviluppando un dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato dagl i interventi di PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto e al quale hanno poi partecipato Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo.


Ha senso interrogarsi sul rapporto tra cattolici e cultura? Se quella e sta ad indicare, come purtroppo accade, un divario da colmare, una distanza di cui prendere atto e rispetto alla quale cercare vie d’uscita, strategie possibili, c’è non poco da preoccuparsi. E di quanto questa preoccupazione sia grande è testimonianza proprio il dibattito che si sta sviluppando in questi mesi sulle pagine di “Avvenire” a partire dallo splendido articolo di Pierangelo Sequeri.

Occorre allora sicuramente interrogarsi su cosa rende più difficile una presenza culturale dei cattolici fino a renderla insignificante, su quali siano i motivi di una diffusa afasia o dello scivolamento nella paccottiglia spirituale o nei tecnicismi teologici cui sembrano ridursi le parole della fede. Ma forse può essere utile anche fermarsi a considerare il senso dell’intima relazione tra fede e cultura, perché questo può aiutarci a capire quale sia la forza del pensare e del pensare la vita che viene dalla fede, un pensiero non appannaggio di pochi ma alla portata di tutti e soprattutto un pensiero che non chiude, non stabilisce recinti ma apre all’incontro e tesse trame di condivisione.

La fede non può che farsi cultura; è cultura essa stessa perché dà forma alla vita, orienta l’agire e il sentire interiore, alimenta il pensiero. O è così o non è. Si opera una forzatura quando si pretende di relegare la fede in uno spazio separato da tutto il resto della vita e non la si riconosce, secondo la penetrante espressione di Schleiermacher, come “l’intima molla” dell’esistenza, il “grembo” di ciò che si è e si vive, del proprio modo di stare nella realtà, di concepire e di vivere il rapporto con lo spazio, il tempo, il senso delle cose e delle relazioni. È a questo livello fontale del vivere e dell’essere che la fede ha bisogno di essere considerata e ricondotta perché ritrovi il linguaggio della vita. Ma è anche a partire da questo livello che forse ci si può interrogare su quale linguaggio essa assuma oggi nell’esperienza comune.

La fede si fa cultura anche quando non è perfetta, non è matura o pienamente consapevole, nella sua fragilità, nell’incertezza dei suoi tratti, nella deliberata negazione o nella trascinata indifferenza che sembra annullarne la possibilità, così come nella domanda inascoltata e inespressa dei cercatori di senso; anche quando se ne ignora la forza o quando ci si adopera a soffocarla.

Sottolineare il rapporto originario ed essenziale con la cultura, non vuol dire che la fede – e meno che mai la nostra fede in Cristo Gesù – sia destinata a essere un fattore identitario da rivendicare in una logica contrappositiva ed escludente. La fede, e l’esperienza di Dio che ne costituisce il nucleo incandescente, qualunque sia il suo livello di articolazione o di consapevolezza, è sorgente inesauribile e irreggimentabile. Alimenta dall’interno la storia, le epoche, le esistenze e le culture. Si dice in modi diversi nella diversità dei tempi e dei contesti, ma anche nella diversità delle storie e dei percorsi esistenziali. Vale per ogni fede ma in modo particolarissimo per la nostra fede che ha nel mistero dell’Incarnazione e della Pasqua i suoi pilastri. Non c’è posto per l’omologazione. C’è piuttosto da riconoscere la ricchezza che è dentro la diversità, la sua irriducibilità. E questo non soltanto in ordine alla diversità delle culture, delle tradizioni religiose, ma anche nelle trasformazioni generate dal divenire della storia. Il farsi carne del Verbo e il mistero della Pasqua non giustificano in alcun modo una sorta di implicita colonizzazione nella riconduzione a un modello già dato che coincide con il nostro; spingono piuttosto al riconoscimento dei semi che non siamo stati noi a portare, di una relazione donata al fondo della vita e della storia che ci supera infinitamente e nella quale comprendersi, di un principio di rigenerazione e di umanizzazione che silenziosamente agisce nelle fatiche degli esseri umani, nei loro erramenti e nel loro più profondo desiderio.

Non è nell’idea di dover correggere, raddrizzare, riportare a ordine il confuso vivere e affannarsi della gente comune che si fa cultura da credenti. Ci è chiesto piuttosto di riconoscere che questo tempo ci attraversa e non temere di avvertirne interiormente le contraddizioni ma anche di scorgerne le intuizioni e le istanze. Perché è qui, nell’esperienza comune, nella concretezza del vivere che il Regno di Dio silenziosamente cresce. Tra la zizzania sicuramente; ma, pur confondendosi con essa, si fa spazio. A chi voglia fare cultura da credenti in Cristo Gesù è chiesto uno sguardo che sappia andare in profondità, che sappia riconoscere la misteriosa azione della Grazia nel cuore degli esseri umani, lì dove meno te la aspetti. Si tratta di fare spazio alla infinita creatività dello Spirito, di non opporre resistenza a ciò che ci sorprende, fino a sconvolgerci talvolta, ma in cui avvertiamo il soffio liberante dello Spirito.

È per questo che è importante pensare. Pensare la vita per imparare a leggere ciò che accade; imparare a scorgerne la logica di senso che è logica del disordine, sensatezza mai pienamente dispiegata ma attesa e desiderata; per imparare ad avvertirne il respiro d’infinito. È il dovere di pensare che scaturisce dalla nostra stessa fede ed è un pensiero che si fa gratitudine e assunzione di responsabilità. Un pensiero che si fa cultura.

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