Bastano poche sale di “Beyond Caravaggio” (Oltre Caravaggio), mostra aperta pochi giorni fa alla National Gallery di Londra, per avere chiare due cose: che di Merisi ce n’è uno solo e che è, nei fatti, inimitabile. In Italia il tema dell’influsso di Caravaggio sui pittori non è nuovo e dopotutto molte mostre italiane, più o meno recenti, promosse come dedicate a Merisi erano a ben vedere ricche di caravaggeschi più che di Caravaggio (magari pure dubbi).
A Londra, dove a giudicare dalle molte recensioni apparse su quotidiani e web, il tema fuori dall’ambito accademico sembra invece piuttosto nuovo, si è cercata la via del confronto e del raffronto tra il modello e gli epigoni. Sei tele del gran lombardo disseminate nelle sale, attorniate da quelle di artisti come Bartolomeo Manfredi, Cecco di Caravaggio, Antiveduto Gramatica, Orazio Borgianni, Orazio Gentileschi, lo Spadarino (che ne esce come pittore di prima grandezza), i “napoletani” Caracciolo, lo Spagnoletto, Mattia Preti (i più vicini nello spirito al maestro)… e poi i francesi (Georges de la Tour e Valentin de Boulogne) e i fiamminghi (Gerrit van Honthorst e Matthias Stom). Le opere provengono quasi totalmente da musei, residenze storiche, castelli, chiese e collezioni private di Gran Bretagna e Irlanda – tracciando così indirettamente un profilo del collezionismo anglosassone.
La mostra curata da Letizia Treves, a capo del Curatorial Department della National Gallery, evidenzia sì il peso e il fascino esercitato da Caravaggio sugli altri pittori, ma finisce soprattutto per evidenziare la distanza tra lui e gli epigoni. Non è una questione di qualità della pittura – ci sono in mostra artisti eccellenti, e nel caso ad esempio di Guido Reni, che ha una passeggera passione realista, persino “migliori” di lui – ma di essenza. Perché di Merisi, della sua arte mai vista che sembra scoperchiare il vaso della natura, ognuno coglie un aspetto ma non la complessità: come se sfuggisse cosa (e chi – come ancora in gran parte ci sfugge) sia veramente Caravaggio. Pare significativo, per esempio, che gran parte dei dipinti risalgano agli anni tra il 1615 e il 1630, ossia dopo la morte di Merisi (1610). Un successo a scoppio ritardato, come se Caravaggio venisse scoperto solo una volta scomparso. Soprattutto, molti di questi dipinti fanno riferimento alla primissima fase romana, quella che gravita tra la metà degli anni ’90 del Cinquecento e i primi del Seicento: quindi tempi ancora più remoti. A essere mutuate di Caravaggio sono soprattutto le iconografie “morali” (i giocatori di carte, i bari, i concerti nelle bettole) che Merisi dipingeva ancora in una luce diffusa mentre i caravaggisti le interpretano nello stile tenebroso della pittura sacra. Ma quelle che in Caravaggio sono, appunto, scene morali qui diventano scene di genere, soggetti codificati e reiterati per le richieste di un mercato.
Della tecnica di Caravaggio, poi, i pittori mutuano il fondo neutro o scuro: una soluzione che Merisi impiega per portare tutto in primissimo piano (altro che naturalismo: qui Caravaggio pare guardare ai bassorilievi antichi) ed escludere il contesto per concentrarsi sull’evento. Molti tra gli epigoni sono affascinati dal buio, mentre in Caravaggio questo è condizione per dipingere la luce: fisica e mistica. A francesi e fiamminghi la coincidenza (già barocca) di naturale e soprannaturale sfugge del tutto e si fermano all’effetto luministico: pirotecnico nel senso più pieno, perché dipingono quasi sempre la luce artificiale di una candela, mostrata o mascherata dalla mano. Un oggetto e una soluzione che in Caravaggio non ci sono mai. O quasi: nella Cattura di Cristo di Dublino – in mostra affiancata in un corpo a corpo avvincente con la Cena in Emmaus dal Cristo imberbe della National Gallery, opere coeve ed entrambe provenienti dalla collezione Mattei – compare anche Merisi stesso nei panni del portatore di una lampada: colui che cerca di fare luce, eppure non riesce a illuminare nulla, mentre il flash accecante che ferma la scena per l’eternità cade dall’alto. Il primo piano richiede l’elaborazione di strategie narrative. I caravaggeschi costruiscono su due fuochi simmetrici e paritari, in cui l’occhio gira libero da una all’altra figura (L’incredulità di san Tommaso dello Spadarino); così facendo, però, al centro si forma un vuoto e allora vi collocano un elemento significativo (la mano di Gesù nel Cristo tra i dottori di Gramatica); oppure individuano una direzione univoca della composizione, ma lasciano scivolare la narrazione oltre la cornice del quadro (il Tributo di Serodine). Caravaggio non adotta nessuna di queste soluzioni. Polarizza l’immagine, ma tiene Gesù sempre nel fuoco, anche se è decentrato, generando gerarchie precise nella composizione del dipinto. Nella Cattura la figura di Cristo attira tutti a sé come un magnete e argina il montare dell’onda di corpi. Nella Cena in Emmaus Gesù è in fondo alla tavola, ma con il suo gesto michelangiolesco sembra avanzare conquistando il centro del prisma costruito dai corpi dei discepoli, con una “forza” tale che la fruttiera viene spinta oltre il bordo della tavola. Nel magnifico San Giovanni Battista nel deserto, da Kansas City, a essere magnetico è lo sguardo affondato nel buio delle orbite: una volta risucchiati nella pozza nera da cui traguardano le pupille tutto il resto del quadro, per quanto sontuoso, è semplicemente periferia.
È in questo dettaglio che si misura l’equivoco della “natura”, su cui i contemporanei si divisero e in modo feroce. In Caravaggio la natura è interna, per gli altri è esterna. Caravaggio ha una infallibile capacità di entrare nella psicologia e nell’anima dei personaggi, rivelata attraverso dettagli tanto minimi quanto vividi e decisivi. Lo sguardo di Giuda che, nel baciarlo, riconosce in Cristo il Signore ed è già in preda al rimorso; la mano che scatta sulla sedia nella sorpresa del discepolo di Emmaus; l’oste incuriosito dal gesto, per lui assurdo, di Gesù; l’espressione sorda e indifferente del boia nel porgere la testa del Battista a Salome e il voltarsi di questa in un istante di orrore e lucidità; lo sguardo obliquo del Battista… Tutto questo in gran parte nei caravaggeschi non c’è, perché riducono Caravaggio a metodo. Si fermano ammaliati dal virtuosismo delle superfici, formalizzano le invenzioni, fanno delle persone in carne e ossa dipinte da Merisi dei personaggi e delle maschere. È un equivoco che Caravaggio dipinga la natura, cioè quello che si vede. Pittore onnivoro, tutto fagocita nel suo colore, con tutto e tutti gareggia con la coscienza sfrontata del gigante: Michelangelo e Raffaello, Venezia e Firenze, la natura e il mondo classico. La differenza, in fondo, è tutta qui: i caravaggisti cercano di dipingere la realtà. Caravaggio, no. Caravaggio dipinge la verità.