«È una Caporetto»: la frasetta è ormai diventata proverbiale. Il ricordo della sconfitta in quella che i nemici di allora, gli austroungarici, definivano la dodicesima battaglia dell’Isonzo è ancora oggi così vivo nella memoria da suscitare sentimenti contrastanti. Fu tradimento? Colpa dei generali inetti? Responsabilità dei soldati poco combattivi? Curiosamente pochissimi sanno dove sia oggi e come si chiami questa località; per la cronaca: Kobarid, e sta in Slovenia, nella valle del fiume che per noi è Isonzo e per loro Soca. Dal 24 ottobre, giorno dell’occupazione di Caporetto, al 10 novembre 1917, con il rischieramento sulla linea del Piave e del Grappa, l’esercito italiano perde 650.000 uomini su un milione e mezzo di combattenti (40.000 morti e feriti, 260.000 prigionieri, 350.000 sbandati) e deve abbandonare nelle mani del nemico 3000 cannoni, ovvero la metà di tutta l’artiglieria. Nella peggiore tradizione italiana, nessuno si vuole assumere la responsabilità degli eventi e prima si scaricano le colpe addosso agli 'altri', poi si cerca di mettere la polvere sotto il tappeto.
Significativa la voce 'Caporetto' dell’Enciclopedia Treccani, scritta in epoca fascista, e materialmente redatta da Amedeo Tosti, un ufficiale dell’esercito che si dedicava alla storia militare. «Lo stato d’animo delle nostre truppe non era più quello delle prime battaglie dell’Isonzo: la stanchezza, il pensiero delle famiglie assoggettate a tutte le restrizioni imposte dalla guerra, l’incertezza circa la durata di questa e la lentezza dei nostri progressi territoriali nonostante le perdite sempre più ingenti, la propaganda sovversiva e pacifista, infine, e quella che il nemico tentava d’insinuare dalle sue trincee nelle nostre, avevano finito col far presa nell’animo dei nostri soldati». Non c’è ombra di autocritica, si fa capire che la responsabilità è dei soldati, un po’ per l’ineluttabilità degli eventi, un po’ per via dei nemici interni (pacifisti) ed esterni (austriaci). Sul comportamento dei comandi, neanche una parola; d’altra parte sarebbe stato difficile attendersi qualcosa di diverso facendo compilare la voce a un militare di carriera.
Ancora più significativo è quanto accaduto col romanzo Addio alle armi, di Ernest Hemingway. Lo scrittore americano descrive ciò che era accaduto sul fiume Tagliamento: accanto a uno dei pochi ponti rimasti in piedi, dove si accalcavano le truppe in ritirata, era stato allestito un improvvisato tribunale militare. Gli ufficiali che si presentavano alla spicciolata, senza i propri sottoposti, venivano frettolosamente processati e fucilati per aver abbandonato gli uomini di fronte al nemico. La voce si era sparsa e molti ufficiali si strappavano i gradi, tentando di farsi passare per soldati semplici, ma venivano esaminate le maniche delle giubbe e scattava immediato l’arresto se si vedeva l’ombra scura del tessuto che al di sotto della mostrina non si era scolorito. L’episodio non era inventato (Hemingway era stato testimone della rotta di Caporetto) ma ha ugualmente fatto scattare la censura sul romanzo. Addio alle armi è uscito in inglese nel 1929, ma è stato tradotto in italiano soltanto diciassette anni più tardi, nel 1946, da Mondadori, quando ormai sull’onore delle forze armate si erano addensate ben altre nubi.
Tra l’inizio e il 10 novembre 1917, ovvero a ridosso degli eventi, Giuseppe Prezzolini scrive un pamphlet che analizza le ragioni della sconfitta e che verrà pubblicato nel 1919, dalle Edizioni della Voce, con il titolo Dopo Caporetto. L’analisi di Prezzolini è impietosa: gli ufficiali effettivi si imboscavano e mandavano a morire i disprezzati colleghi di complemento. «Quello che l’ufficiale ha fatto nell’esercito è quello che la borghesia ha fatto nel Paese», scrive, aggiungendo: «La nostra borghesia, mentre usa i propri privilegi, non sente il peso dei suoi doveri». E poi ancora: «Se l’ufficiale è lo specchio della borghesia, il soldato è lo specchio del popolo: e ambedue non differiscono molto, perché un popolo ha la classe dirigente che sa esprimere dal suo sangue, e la classe dirigente ha il popolo che sa educare e dirigere». I mali dell’esercito sono i mali del Paese e la sconfitta va imputata a questi mali. Nel denunciarli, lo scrittore usa concetti e parole di sorprendente attualità: «La classe dirigente italiana nasce e proviene dalla grande massa che chiamiamo popolo. Non è separata casta». L’Italia di Caporetto, nel giudizio di Prezzolini, appare tragicamente simile a quella attuale.