Sélim Nassib - -
Spesso i romanzi aiutano a capire la realtà meglio dei saggi. Perché, oltre alle analisi, c’è la vita. È il caso del libro di Sélim Nassib, Il tumulto (edizioni e/o, pagine 384, euro 19,50), che ha anche un importante risvolto autobiografico. Nato e cresciuto a Beirut, Nassib appartiene a una famiglia ebraica (madre di origini siriane, padre iracheno) con nazionalità iraniana, ottenuta all’epoca dello scià, essendo stata loro negata quella libanese. Trasferitosi in Francia, è stato giornalista del quotidiano Libération e autore di vari libri, continuando a interessarsi e a scrivere di Libano e Medio Oriente. Fatalmente il tema dell’identità lo insegue: identità personale, per il contesto familiare e comunitario in cui è cresciuto, ma anche per le scelte fatte da adulto; identità di un popolo come quello libanese, forgiato e ossessionato dalle appartenenze comunitarie; e di una regione come il Medio Oriente che ne ha fatto una questione esplosiva. E in effetti, leggendo il suo romanzo, che si dipana tra gli anni Cinquanta e Ottanta, non solo si ritrovano tutti gli elementi sociali, culturali, politici e religiosi che hanno preparato e alimentato tante crisi, ma si odono distintamente gli echi di un conflitto - l’ennesimo - che sta nuovamente dilaniando quelle terre. Eppure questo romanzo «non è un libro politico», come tiene a precisare lo stesso autore. È molto di più: uno sguardo articolato e dall’interno su un mondo complesso e pieno di contraddizioni, affascinante e tragico, misterioso e crudele.
Sélim Nassib, il protagonista del suo romanzo, Yussef, ci accompagna lungo tre decenni di storia, dal 1955 sino all’invasione israeliana e dalle manifestazioni studentesche del ’68 agli attacchi nei campi profughi palestinesi. Perché questo periodo?
«Ho vissuto molte di quelle vicende, anche se Yussef è molto meglio di me (scherza). È un ragazzino di 13 anni che scopre se stesso e la realtà che sta fuori dalle pareti domestiche; è un giovane impegnato nelle lotte studentesche; e poi, vent’anni dopo, un giornalista che lavora a Parigi e torna per documentare la guerra che sta devastando il suo Paese. Tre grandi momenti, che raccontano una storia attraverso molte storie».
Nella via in cui Yussef abita con la famiglia ebrea ci sono il droghiere cristiano e quello musulmano, il barbiere armeno, il falegname palestinese, una famiglia di russi… Un quadro di convivenza possibile, anche se poi tutto esplode.
«Il filo conduttore è la storia di un ragazzo che vuole sfuggire a un’identità di origine per conquistare un’identità scelta. L’elemento comunitario è sempre stato molto forte in Libano, ma per anni è sembrato possibile vivere insieme. Il centro di Beirut, in particolare, era un luogo “misto”, dove ci si incontrava. Con la guerra le comunità si sono rinchiuse su se stesse, le divisioni sono diventate più profonde e si sono radicalizzate. E il centro di Beirut è stato il primo a essere distrutto».
Un tema forte, però, è quello dell’amicizia, che supera molte barriere, come quella tra il protagonista e l’amico musulmano Fuad.
«È un’amicizia che in qualche modo si impadronisce di loro, che nasce dalla condivisione di un ideale di lotta politica e di cameratismo, e anche da una visione comune rispetto a quanto succedeva nel Paese e nel mondo. Ci sono tanti elementi che alimentano un’amicizia, compreso il desiderio giovanile di emancipazione o semplicemente quello di incontrare delle ragazze».
Yussef, come altri universitari, sogna un Libano in cui ognuno senta di appartenere al Paese prima che a una religione. Quella di una nazione pacifica e multireligiosa è stata una mera illusione di qualcuno?
«Molti giovani ci hanno creduto davvero, specialmente nel ’68. Per Yussef è l’esperienza della prigione a riportarlo con i piedi per terra. È lì che scopre brutalmente una realtà sotterranea e invisibile, che non sospetta, un livello più profondo di forze contrapposte che poi esplode nella guerra».
È quello che succede ancora oggi?
«Comprendersi e uccidersi, grandi intese e grandi barbarie. Questo è stato ed è il Libano. Un Paese che ha due catene montuose, il monte Libano e l’anti-Libano. Rappresentano, anche in senso metaforico, una terra che, è al contempo, una cosa e il suo contrario. Dicotomie che sono pure nel cuore delle persone».
Lo stesso protagonista, quando torna da giornalista a Beirut accerchiata, è allo stesso tempo anti-israeliano e anti-Hezbollah.
«La sua non è una posizione ambigua, anzi. Non sopporta l’esercito israeliano che scaccia di nuovo i palestinesi che aveva già cacciato una volta, ma non può sopportare che Hezbollah faccia cadere il Paese nell’estremismo. Anche oggi è così. Ci sono forze che vogliono solo la guerra e il settarismo. Ma sappiamo come andrà a finire. Quando nel 1982 terminò il conflitto, ci si rese conto che tutti avevano perso».
Nel suo romanzo un’altra grande protagonista è la città di Beirut.
«Beirut è centrale nel romanzo e lo è nella mia vita. Una città straordinaria malgrado tutto. Anche nelle peggiori situazioni, come oggi. C’è un senso di attaccamento che rimane per sempre, un legame schizofrenico: ho la mia vita in Francia, ma il mio spirito resta là. È come quando si ha un figlio malato e non lo si può lasciare anche se non c’è molta speranza».
Come è stato accolto il suo libro in Libano?
«Molto bene, ma è in francese, e mi piacerebbe che venisse tradotto in arabo. Vorrei che più gente lo potesse leggere, anche per avere uno sguardo su un pezzo di storia che non è presente nei libri di scuola che si fermano al 1975. Dopodiché non c’è più un racconto nazionale condiviso, ma il punto di vista di ciascuna comunità».
Parla del Libano come di un «non-luogo, ma delizioso». E oggi?
«C’è veramente un “genio” speciale. C’è ancora grande vivacità, ma moltissimi ormai vivono sotto la soglia di povertà. Il Paese è in mano a banditi di tutte le religioni che si spartiscono la torta. Un Paese ricco, diventato miserabile. Una situazione disastrosa a cui l’attacco israeliano non fa altro che portare ulteriore distruzione».