C’è chi dice no, e c’è chi dice sì. Diversi tra loro, tanto da risultare opposti, ma accomunati da un’etica della responsabilità che, in un caso come nell’altro, non può esprimersi se non in un orizzonte metafisico. Al di là della ricorrenza del centenario (appartenevano entrambi alla classe del 1913), il premio Nobel per la letteratura Albert Camus e il filosofo Paul Ricoeur continuano a incontrarsi. Come accadde almeno una volta durante la loro vita, e cioè quando, al termine di una conferenza sull’esistenzialismo, Ricoeur fu avvicinato dall’inatteso Camus, i cui scritti erano stati appena commentati. Ieri, però, durante il «Cortile del Cuore» (variante del Cortile dei Gentili, promossa a Marsiglia dall’Institut catholique de la Méditerranée diretto da Jean-Marc Aveline), la studiosa
Marie-Jeanne Coutagne ha adombrato la possibilità di un altro contatto fra i due, avvenuto alla presenza di una testimone eccellente, Hannah Arendt. Tutto il Novecento in una stanza, dunque, con le sue inquietudini, le sue rivolte e le sue speranze. A tracciare il quadro generale è stato il filosofo
Jean Greisch, titolare della cattedra berlinese intitolata a Romano Guardini: Camus annuncia l’uomo in rivolta e Ricoeur parte dalla frantumazione dell’io per postulare la necessità di una decisione aperta al consenso. Ma tra il "no" che conclude
Il malinteso camusiano e il
fiat del maestro di
Tempo e racconto si distende un fertilissimo territorio comune. Greisch si sofferma sull’elemento di meraviglia poetica che gioca un ruolo decisivo nella vicenda di Ricoeur e poco dopo il teologo
Xavier Manzano descrive l’analogo atteggiamento di adesione sensuale alla realtà da cui muove, procedendo subito per contrasto, l’esperienza di Camus. E poi c’è il tema – inesauribile – del rapporto con la Bibbia. Si tratta di un momento fondamentale per la ricognizione di Ricoeur nell’universo del testo, come hanno sottolineato, sia pure da prospettive differenti, gli specialisti
Edoaurd Robberechts e
François-Xavier Amherdt. Anche in Camus, però, affiorano di continuo elementi che rimandano alla Bibbia. È l’identificazione (segnalata dal filosofo
Jean-François Mattei) tra la madre analfabeta e il Cristo nelle pagine dell’incompiuto
Il primo uomo, ma è anche l’inattesa consonanza fra l’analisi di Camus e il lamento di Qoelet, come ha osservato il cardinale
Gianfranco Ravasi: il termine ebraico
havel, solitamente tradotto con “vanità”, indica in effetti l’inconsistenza della nebbia e rinvia pertanto al sentimento dell’assurdo. Che un’interrogazione così scandalosamente radicale abbia diritto di cittadinanza nella Bibbia è, del resto, uno degli elementi che hanno portato alla costituzione del Cortile dei Gentili, luogo di dialogo e confronto fra credenti e non credenti che lo stesso cardinal Ravasi ha istituito nella sua veste di presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, facendo propria un’istanza sollevata con urgenza da Benedetto XVI. Per non essere una collezione di monologhi, tuttavia, il dialogo deve rispettare alcune regole. Una (la principale, forse) è fissata da uno fra i più autorevoli teologi francesi,
Philippe Capelle, che nel suo ritratto di Ricoeur valorizza in particolare il rigore di un percorso che, prendendo le mosse dal rifiuto di una divinità intesa come principio di immanenza, assegna uno specifico valore filosofico all’atto di "nominare Dio". Una scelta di metodo che conduce, ancora una volta, al centro dell’umanesimo, movimento grandioso che – come ha ribadito un altro importante teologo,
Jean-Robert Armogathe, direttore della redazione francofona della rivista “Communio” – ha la sua origine più autentica nella coscienza del limite, della colpa e della caduta. Termine biblico, pure questo, e insieme titolo di uno dei capolavori di Camus. Si procede dal materiale allo spirituale, lungo una linea condivisa da
Joseph Rimmaudo, che per la prima volta ha fatto risuonare nel Cortile dei Gentili la voce di una tradizione controversa come quella massonica. Ma alla concretezza del reale, alla fine, si torna, come ha sostenuto nel suo intervento il filosofo
Jean-Marie Glé: Ricoeur e Camus non erano solo coetanei, ha ricordato. A renderli più vicini è stata la povertà della loro infanzia, la loro condizione di orfani. Per questo, in definitiva, il loro pensiero non ha nulla di intimista e dalla solitudine passa alla solidarietà per sfociare nella compassione. Senza speranza, ormai lo sappiamo, qualsiasi rivolta sarebbe insensata.