Il 70enne cantautore Juri Camisasca che ha appena pubblicato l’album “Cristogenesi” con le Edizioni Paoline - / Laura Gueli - Arti Visive Studio Ragusa
Trent’anni dopo Edith Stein con Il Carmelo di Echt, Juri Camisasca canta un’altra martire di origine ebraica dei lager nazisti, Etty Hillesum. Lo fa attraverso l’intenso Vite silenziose, uno dei vertici del nuovo album Cristogenesi, tredici brani tra canzoni inedite e rivisitazioni di canti tradizionali da lui rielaborati insieme al musicista e arrangiatore Carlo Longo. Un disco (uscito in cd e sulle principali piattaforme digitali) che si dipana in un sottile e mistico accompagnamento, da ascoltare, custodire e meditare prendendo le mosse, nelle intenzioni e nel titolo, da quella che il grande teologo Pierre Teilhard de Chardin definiva «la genesi del Cristo totale». L’ex monaco benedettino e neo-settantenne Camisasca cerca così, da “sacerdote” del suono, di farsi ancor più canale di comunicazione a due anni di distanza dal precedente Laudes (sempre pubblicato da Edizioni Paoline) tra terra e cielo, cercando di guidare l’ascoltatore in un viaggio musicale e spirituale verso l’Assoluto. Tensione che ha sempre attraversato e connotato la stessa parabola esistenziale a artistica dell’amico nonché vicino di casa a Milo, alle pendici dell’irrequieto Etna, di Franco Battiato, conosciuto nel più improbabile contesto in cui le loro due ispirate anime parallele potessero incontrarsi, il servizio militare.
Camisasca, in che misura pensa di considerare la musica anche una missione?
Lo è leggendo a ritroso la mia stessa vita. Dischi e concerti li faccio anche con l’intento di essere di sollievo alla gente in questo strano mondo sempre più aggressivo. Siccome la mia esistenza è andata in una certa direzione, non grazie a me ma per la Grazia con la maiuscola, ecco allora che fare musica è anche un servizio agli altri dal momento che ho ricevuto un evangelico talento, pur non essendo Mozart. Chiaro che quando scrivo e compongo provo anche una gratificazione intima e personale, perché è bello essere creativi. Noi essere umani siamo tutti co-creatori. Ma attenzione al nemico numero uno.
Di chi si tratta?
Il nostro Ego. Fondamentale per strutturare la propria individuale personalità, ma anche minaccia principale verso una esistenza armonica. È necessario superare la tendenza di un Ego solo alla ricerca della propria effimera soddisfazione, per mettersi invece a disposizione dell’esistenza nella sua totalità. Dobbiamo armonizzare dimensione fisica ed essenza spirituale perché il nostro autentico cammino è essenzialmente verticale. Parafrasando san Benedetto, dovremmo mantenere le antenne in cielo pur camminando con i piedi ben piantati per terra.
Detto oggi sembra quanto mai utopistico, non trova?
Certo, in un mondo dominato da un Ego che arraffa tutto quanto per proprio godimento personale portando alla distruzione del nostro stesso pianeta e facendo perdere di vista la dimensione universale della vita. Ma è proprio nell’attuale assurdo contesto che l’uomo deve recuperare la semplicità del vivere e imparare ad accontentarsi di ciò che si ha. Mi riferisco in particolare alla società occidentale. Non dobbiamo cercare fuori di noi quello che in realtà è il tesoro più prezioso che abbiamo dentro, l’amore che si fa compassione. È molto impegnativo ma è l’unica strada, ne sono convintissimo. È un’altra forma di Ego: un partire da sé che diventa altruismo. Se siamo nella pace interiore comunichiamo la pace e il mondo cerca la pace anche se non lo sa.
Il suo nuovo disco sembra voler comunicare proprio questo...
Sì, nel suo insieme. Tra i brani scritti da me e quelli della tradizione. Così ho voluto dedicare un brano a Etty Hillesum, la sua storia e le sue parole mi hanno sempre colpito. Ho sentito dentro di me lo stesso impulso di quando scrissi Il Carmelo di Echt nel ricordo di Edith Stein. Lei nonostante vivesse la disumana situazione dei lager nazisti era in grado di apprezzare la vita. Quante volte nei suoi diari dice che la vita è bella... Pur trovandosi in quell’inferno riusciva a rimanere affascinata da un fiore che vedeva sbocciare o da un cielo azzurro. Riusciva a cogliere il miracolo di un pur piccolo dettaglio di vita.
«In ogni istante dentro di te in quello spicchio di libertà ti abbandonavi» canta in Vite silenziose...
Ecco, sì. Tutti noi dovremmo fare così. Stiamo vivendo su un pianeta che l’uomo sta distruggendo, ma credo che come ha saputo fare Etty Hillesum ci sia sempre la grande possibilità di vedere le cose belle. Nonostante anche questi martellanti nuovi mezzi di comunicazione stiano contribuendo a fare il contrario, propagando aggressività e violenza verbale che avvelenano l’animo delle persone. Io non ho la televisione, ma vado su Internet e troppo spesso provo sconforto. Se non guardiamo la bellezza della vita non ce la caviamo più. Per questo l’unica strada è coltivare la spiritualità, che per me è la dimensione cristiana.
Anche cantandola...
Il disco è in fondo una composita riflessione musicale e spirituale sul senso del nostro cammino. E il senso siamo noi, nel nostro procedere incerto verso l’Assoluto. Così il disco si chiude con un brano intitolato La mia genesi sotto la guida ispiratrice di Henri Le Saux, un monaco cristiano francese dell’ordine benedettino che ha molto contribuito al dialogo tra cristianesimo e induismo. Un giorno in un modo a noi incomprensibile, in una dimensione inafferrabile per la scienza, ci libereremo in volo nell’infinita vita divina. Questo è quanto esprimo nel brano ed è ciò in cui credo.
Un altro suo inedito apre invece il disco, Il tutto nel frammento.
Creazione, evoluzione, incarnazione e preghiera sono i cardini su cui è costruito il pezzo, con atmosfere rarefatte e cosmiche. Dio è in profonda relazione con il creato e conduce l’esistenza verso la pienezza, verso la Cristogenesi, la nascita del’uomo assoluto nell’anima.
E poi ha voluto pescare anche nella tradizione...
Tra i capolavori del passato ho ripreso per esempio nel canto per l’Avvento di origine francese Emmanuel: è un brano talmente bello che alla gente credo faccia piacere sentirlo. Una canzone quasi magica nella sua breve durata di tre minuti. È stata cantata da tanti artisti, da Joan Baez a Loreena McKennitt, ma io ho voluto darle una veste molto concreta, con una chitarra acustica e un flauto. Poi c’è Stella Caeli che credo sia di origine francescana: un canto che era utilizzato per invocare la protezione della Vergine Maria dalle epidemie. Considerando i tempi che stiamo vivendo mi è sembrato quasi doveroso includerla nel disco. O filli et filiae è invece un canto gregoriano pasquale, che ho un po’ accorciato. Poi c’è Dodici Kyrieche appartiene alla tradizione ambrosiana in cui si dice soltanto “Signore pietà”, non anche “Cristo pietà” ovvero “Christe eleison”: lo canto con un arrangiamento molto spaziale, allontanandomi dall’originale. Al passato, al diciassettesimo secolo, ho attinto anche il Sanctusdi Henri Du Mont che fa parte della cosiddettaMissa Regia. È la lode cosmica e metacosmica per eccellenza. L’arrangiamento mio e di Carlo Longo è un paesaggio sonoro caratterizzato dal ritmo un po’ ipnotico delle percussioni con un intreccio armonico sostenuto dal coro (il “Cantus novo” diretto da Giovanni Giaquinta, ndr), dai fiati e dalle fasce elettroniche.
Nel disco manca Franco Battiato. Non ha pensato di omaggiarlo, a pochi mesi dalla scomparsa?
Mi sarebbe sembrato fuori luogo e ho preferito evitare anche solo una semplice dedica. Anzi, in questi mesi io sono stato un po’ esasperato dai tanti che mi chiedevano di Franco e della nostra lunga amicizia. Ma in futuro potrei fare molto di più di un semplice omaggio.
A cosa si riferisce?
L’ultima incisione di Franco Torneremo ancora è un brano che abbiamo scritto insieme e faceva parte del progetto di un disco che stavamo preparando insieme. Poi la vita ha disposto diversamente, con la malattia di Franco e la sua morte lo scorso maggio. Magari un giorno deciderò di far sentire queste cose, ma per adesso no.
Ha comunque partecipato al grande tributo a Battiato all’Arena di Verona...
Un momento celebrativo davvero sincero e partecipato, merito del suo storico manager Francesco Cattini. So che andrà in onda su Rai 3 il prossimo 5 gennaio con un docufilm girato da Pif.
Battiato l’ha lanciata nella musica producendo nel ’74 con Pino Massara il suo primo album, La finestra dentro, ma lei gli ha insegnato a dipingere...
Sì, gli piacevano le mie icone. Franco non sapeva assolutamente tenere il pennello in mano, poi ha incominciato a entusiasmarsi e dipingere lo rilassava. Nel cortile della sua casa di Milo, in una specie di nicchia scavata nel muro, proprio agli inizo ha dipinto un San Francesco che predica agli uccelli. C’era in Franco un aspetto della spiritualità cristiana che lo affascinava moltissimo.
Il cristianesimo era una delle fonti spirituali a cui attingeva?
Sempre di più negli ultimi anni, ma lui leggeva più i mistici cristiani che i teologi. Franco non aveva fatto la cresima da ragazzo, ma qualche anno fa gli era stato chiesto da amici di fare il padrino a un cresimando. Così si è fatto cresimare dal vescovo di Acireale ed ero presente anch’io. Lo aveva fatto per poter fare da padrino, ma vedevo che in lui c’era il piacere di appartenere a una tradizione. Franco ha cercato sempre un’ancora di sicurezza, era un cercatore di Dio e di Assoluto.